Hochwald segna l’esordio alla regia di Evi Romen, già montatrice televisiva di lungo corso. Il film, presentato al Torino Film Festival 2020, vede protagonista il sudtirolese Thomas Prenn – qui alla prese con una prova attoriale non semplice – affiancato da Noah Saavedra, Josef Mohamed, Kida Khodr Ramadan.
HOCHWALD, UN FILM CHE È UNA STORIA DI CONFINI, AMBIGUITÀ E CONFLITTO
Mario (Thomas Prenn) vive a Hochwald, piccolo paese del Sud-Tirolo; un luogo di confine etnico-linguistico in cui si finge in silenzio di non sapere della sua omosessualità. Ha una sconsiderata passione per la danza e, mentre lavora come pasticciere, nel tentativo di guadagnare per coltivare la sua carriera artistica, passa le giornate in macelleria, facendosi pagare per “servizi speciali” resi nel retrobottega a un suo collega. Il sovraccarico esistenziale viene ulteriormente alimentato quando, in un locale gay a Roma, il suo caro amico Lenz (Noah Saavedra) rimane vittima di un attacco terroristico. L’evento innesterà un’oscillazione emotiva fra il senso di colpa e la volontà di liberazione.
LA TENSIONE FRA PROVINCIALISMO E LIBERTÀ NEL FILM DI EVI ROMEN
L’opera prima della Romen è promettente. Lo script – seppure a volte soffra di un sovraccarico tematico – trova come giusta ambientazione uno spazio di confine, di ambiguità, configurandosi come luogo fisico che esteriorizza la complessità del protagonista. Le sequenze del film in cui Mario è coinvolto riportano questo movimento polarizzato fra la liberazione (danza) e l’accumularsi del senso di colpa, ulteriormente aggravato dal bigottismo cristiano della piccola cittadina in cui vive. Tutto questo nella diversità culturale di uno spazio che mescola toni e linguaggi e che fa dell’intraducibilità una cifra fondamentale della sceneggiatura. Un esperimento, quello della Romen, che aspira a rendere il senso della commistione e della convivenza interculturale in una zona di frontiera.
IN HOCHWALD UN PROTAGONISTA COMPLESSO MA DI UN’ECCEDENZA TEATRALE
Mario soffre le ristrettezze culturali e mentali, per questo il suo ballo è isterico, rapsodico e rievocativo della danza delle invasate da morso da taranta, quella che piaceva dipingere a De Martino nelle sue ricerche antropologiche. Il senso di inadeguatezza, il volersi coprire e smacchiare dal turpe, la dissonanza fra la cieca ottusità di Hochwald e l’apertura all’ambiente cittadino, il conflitto fra la chiusura e la necessità di esprimersi pienamente sono i temi portanti del film. Una formula nota, ma qui utilizzata a toni invertiti, non idillici, di un realismo crudo che riporta, tramite ricerca psicoanalitica, il personaggio verso la tragicità classica. Non a caso, il conflitto di Mario tende a stratificarsi, dando l’opportunità per una buona prova attoriale, anche se a volte troppo spinta oltre il limite e teatralizzata per deformazione professionale (Prenn è infatti prolifico attore teatrale).
WHY NOT YOU(?): IL DESTINO E IL SENSO DI COLPA
Lo snodo narrativo – che dunque amplifica la tensione psichica generando conflitto – arriva (fortunatamente) quando il film inizia a diventare eccessivamente autoreferenziale, con l’introduzione di un evento che fa emergere il valore del racconto: un attentato terroristico islamico che porta alla morte di Lenz, lasciando incolume Mario. Il precario equilibrio dell’omertà di Hochwald si rompe, il colpo di scena scombina il filo della narrazione e disvela il nucleo tematico dello script, addensando la sceneggiatura. Così, Why Not You, titolo internazionale per Hochwald, è la domanda di senso che dà corpo alla storia: l’incrocio perverso delle meccaniche del destino che permette a qualcuno di sopravvivere e un altro di morire. Mario non può essere se stesso, né può opporsi a una comunità muta che simula l’inconsapevolezza; Mario non può praticare le arti libere, perché lo spirito di razionalità incombe; Mario è colpevole di essere sopravvissuto, ma profondamente innocente.
IL FILM PRESENTATO AL TORINO FILM FESTIVAL 2020 E LE SOLUZIONI AL CONFLITTO PSICOANALITICO
Il corso della narrazione, allora, tenta di rispondere alla domanda su come ricucire questa ferita che genera una polarità dilaniante. L’evento della morte di Lenz è un’epifania del conflitto interno che getta Mario fuori da se stesso, esplicitando la tensione interna. La questione è dal forte tono psicanalitico-esistenziale, si proietta nella ricerca di un atto simbolico che possa porre rimedio alle dissonanze, allo scontro tra la coscienza di essere in vita e il pensiero di non doverlo essere. Nel tentativo di dirimere la querelle, Hochwald di Romen trova l’espediente narrativo per risolvere il pesante intreccio tematico e lo fa sapientemente, senza abusare o eccedere. Nella risoluzione del conflitto, così, si riassorbono le questioni sulla relazione interculturale e sul rigetto dell’etnia causata dalla creazione dello stereotipo – in questo caso l’errore sillogistico per cui “tutti gli islamici sono terroristi”.
LE LINEE TEMATICHE DI HOCHWALD SI RISOLVONO NELL’ACCETTAZIONE E NEL RICONOSCIMENTO
Mario diventa l’operatore sintetico di questo intreccio tematico partendo dal proprio conflitto. La prima alternativa valida allo scioglimento del nodo, infatti, pare essere quella della violenza: la distruzione di quell’etnia che ha indotto il conflitto, ucciderne gli appartenenti per riequilibrare la bilancia. Questa prima soluzione è dunque vendetta come riscatto, essa si fa strada come possibilità di ricucire lo squarcio della coscienza. Eppure, la soluzione offerta da Hochwald è più forte, simbolicamente pregnante, profonda. Lo scioglimento, infatti, non si dà nell’annientamento dell’alterità ma nella partecipazione empatica. Il riconoscimento del nemico e delle sue ragioni diventa così il modo di sgravare il senso di colpa che, nel caso di Mario, si concretizza nello sposare il culto musulmano. Questo, infatti, trova piena espressione nel momento della danza, che fa da connettore tra l’io asfissiato e la possibilità di una riabilitazione.
DIVENTARE IL PROPRIO SENSO DI COLPA: LA DIFFICILE SOLUZIONE OFFERTA DALLO SCRIPT
Nel film della Romen, la religione ritorna a essere ciò che è sempre stata: un millenario motivo di conflitto. Mario è duplice rappresentazione della convivenza fra due blocchi, fra il senso di colpa del cristianesimo e il senso di liberazione portato dal nuovo credo. Diventare l’altro è il modo che Mario ha per sgravarsi dal peso e, se nessuno osa aiutarlo – perché questa assenza di un’etica della cura da parte di una cittadina omertosa è il grave problema morale nel film -, allora Mario decide di farlo autonomamente, di diventare il suo senso di colpa. Egli sarebbe dovuto essere al posto del suo amico, si sente alla pari dell’assassino, ha portato via l’opportunità della vita a Lenz. Mario è il terrorista omicida e, per questo, vi si identifica.
MARIO, L’EROE TRAGICO E IL DOLORE DEL DUALISMO
Ecco che, in questo circolo vizioso, Hochwald ricorre al tema della maschera, tipica del teatro, tipica del tragico che, nel caso del protagonista, si configura nell’uso di una estroversa parrucca. Mario vuole ricercatezza in un mondo che impone concretezza, Mario è cristiano e musulmano, Mario è colpevole e innocente. Come il caso paradigmatico dell’Edipo di Sofocle – che uccide il padre e intrattiene un rapporto incestuoso con la madre, ma nell’inconsapevolezza di farlo – su questo dualismo (innocenza-colpevolezza) s’impianta il senso della tragedia classica e Mario ne incarna ambiguità e dolore.
UN’IMMAGINE SATIRICA PER IL MITOLOGICO FINALE DI HOCHWALD
Lo script della Romen si chiude in cerchio, risolvendo il conflitto con un finale dal simbolismo denso, che riporta alle Baccanti di Euripide più che all’Edipo Re di Sofocle, che richiama i toni del Il Sacrificio del Cervo Sacro di Lanthimos, quanto il finale iconico (anche se qui meno cruento) de L’attimo fuggente di Weir. Se la prima sequenza del film ritrae un Mario nudo e danzante, quella finale vi ritorna ma richiamando l’ebbrezza del dionisiaco in un’esplosione libidica. Le ultime inquadrature diventano potentemente mitologiche: Mario porta con sé la capra incoronata da fiori, lui è a torso nudo con la parrucca che, come un satiro (qui però l’immagine è sdoppiata nei due soggetti distinti dell’animale e dell’uomo), fugge nei boschi. Lì, nell’indeterminazione della ciclicità naturale, Mario è libero, può darsi alla sua danza, “diventando ciò che è” e proprio come una baccante può finalmente urlare il sacro verso: “Evoé!”.