Mank, ovvero una scommessa folle per raccontare un uomo dal folle talento. È così che David Fincher, maestro dietro Seven, Fight Club e The Social Network, inizia la collaborazione in esclusiva che lo legherà a Netflix per 4 anni. Un film di smodata ambizione e meno ambiziosi risultati il cui script firmato dal giornalista Jack Fincher (padre del regista, morto nel 2003) era vicino ad essere prodotto negli anni ’90 e che si concentra sulla genesi di una monumentale pellicola del 1941, che per molti è il più grande capolavoro della storia del Cinema: Quarto Potere (Citizen Kane) di Orson Welles.
MANK, LA ‘STORIA VERA’ DELLO SCENEGGIATORE DI QUARTO POTERE (CITIZEN KANE) DI ORSON WELLES
Citizen Kane racconta la vertiginosa ascesa e la rovinosa caduta di Charles Foster Kane, miliardario magnate della stampa la cui figura è principalmente ricalcata sull’imprenditore, editore e politico William Randolph Hearst (ma non solo). Il cinema sonoro parlato era ancora una novità in divenire, essendo nato da circa un decennio e in coincidenza con la Grande Depressione. Il Secondo New Deal roosveltiano iniziava a sortire i suoi effetti, quando il leggendario studio R.K.O. nel ’39 offrì un contratto che garantiva assoluta libertà creativa a Welles, il quale a soli 24 anni dirigeva già una propria compagnia teatrale (la Mercury Theatre) ed era una star di prima grandezza del teatro e della radio. Dopo varie traversie Welles si presentò con 300 pagine di appunti da Herman J. Mankiewicz detto Mank, già collaboratore di Welles e co-sceneggiatore non accreditato de Il Mago di Oz, che detestava Hearst per esser stato allontanato dalla sua cerchia dopo anni di frequentazione. Fu così che nacque Quarto Potere.
Netflix ci regala un Gary Oldman da Oscar
Nello specifico a interessare David Fincher è proprio quel Mank che dà il titolo al film (interpretato da un superbo Gary Oldman), il cui apporto più che sostanziale allo script di Citizen Kane per tanti anni è stato oggetto di polemiche, sminuimenti e sopravvalutazioni. Mank vorrebbe essere quindi non solo un – furbo – omaggio al ‘più grande film di sempre’, ma anche un’operazione verità (non riuscendovi) per restituire al legittimo destinatario i meriti di quel copione così perfetto, riportando al contempo al centro della scena il ruolo degli sceneggiatori, da sempre motore immoto di un Cinema destinato a dimenticarli.
Il padre di Fincher e quella versione anni ’90 di Mank mai girata: protagonisti Kevin Spacey e Jodie Foster, ma un ‘dettaglio’ fece saltare tutto
Quello del biopic è un genere tendenzialmente contraddistinto da una spiacevole pigrizia creativa, e se effettivamente il film fosse poi stato realizzato negli anni ’90, sarebbe probabilmente stato molto diverso. Il bianco e nero preteso da Fincher, che dopo The Game (1997) era pronto a lavorare allo script del padre con Kevin Spacey e Jodie Foster come protagonisti, fu infatti per il regista la condizione imprescindibile che fece saltare la produzione. A più di 20 anni di distanza Fincher non ha demorso dalla sua idea, fino all’incontro con Netflix, e proprio grazie a una compiuta visione autoriale ha saputo instillare in quella storia vera di Mank – di suo non sempre appassionante – un carattere unico e affascinante. Per raccontare le vicende del complicato percorso che portò Mankiewicz a vedersi cointestato con Welles l’Oscar per la Miglior Sceneggiatura Originale nel 1942, il cineasta di Denver sceglie infatti una stilizzazione estrema del proprio linguaggio.
MANK VUOLE PARLARE DI UN FILM DEL 1941 CON IL LINGUAGGIO DI UN FILM DEL 1941
Lo sforzo di ogni mente dietro il film è infatti quello di replicare maniacalmente lo stile del film di Welles. Non solo una semplice scelta di girare in bianco e nero quindi, ma una minuziosissima attenzione filologica a restituire un’esperienza filmica la più vicina possibile a Quarto Potere, che viene omaggiato con eccelso talento replicativo in particolare dalla fotografia di Erik Messerschmidt (Mindhunter) e dal montaggio del due volte Premio Oscar Kirk Baxter.
Un citazionismo sfrenato, tutt’altro che compiaciuto ma anzi risultato di un divertito e libero gioco di fantasie cinefile. Una mise en abîme di momenti che replicano scene del film del ’41 suggerendosi però come ispirazione proprio per ciò che Welles avrebbe poi impresso sulla celluloide. Una ricerca agognata e frontale del confronto col pur diversissimo capolavoro di Welles quindi, che rappresenta per Fincher uno slancio di ambizione rischiosissimo.
DAVID FINCHER È UN GRANDE REGISTA, MA JACK FINCHER NON È UN ALTRETTANTO GRANDE SCENEGGIATORE
L’impatto di Quarto Potere sulla storia del Cinema è dovuto proprio all’incredibile, futuribile e selvaggia originalità con la quale Orson Welles – cui la RKO diede carta bianca nonché la final cut – si inventò dal nulla insieme ai suoi collaboratori soluzioni la cui modernità e consapevolezza è ancora oggi sconcertante. Quella stessa libertà oggi Netflix la dà ai suoi autori, ma in questo caso David Fincher la esercita in un’evocativa replicazione del già visto, che necessariamente non può stupire oltre i primi 5 minuti e demanda quindi alla sceneggiatura ogni successivo onere di rapimento dello spettatore.
Il vero paradosso di Mank è che, pur essendo un film sulla sceneggiatura e nello specifico su quella che forse è la più grande sceneggiatura da che esiste la Settima Arte, ha proprio il suo tallone d’Achille nel copione. Non solo il defunto Jack Fincher non è ovviamente Mank, ma non ci va lontanamente vicino. I dialoghi in alcune scene funzionano anche molto bene, ma manca un collante e una stella polare a fare del film qualcosa in più di un ritratto già visto della Hollywood dell’epoca: è evidente il perché questa sia l’unica sua sceneggiatura che qualcuno ha voluto girare, e peraltro prima di renderla utilizzabile c’è voluto un pesante intervento di script doctoring da parte del produttore Eric Roth, già sceneggiatore tra gli altri de Il Curioso Caso di Benjamin Button e Forrest Gump – ironia della sorte, qui non accreditato. Senza di questo lavoro di rielaborazione, teso anche a restituire a Welles almeno una minima parte dei meriti, gli estimatori di Quarto Potere cui si rivolge la pellicola avrebbero probabilmente rincorso Fincher con i forconi.
Quel libro pieno di falsità e inesattezze da cui deriva un film che ‘sminuisce’ Orson Welles
Le pagine originali di papà Fincher erano un vero attacco diretto alla memoria di Orson Welles, tanto da essere inaccettabili per qualsiasi produttore di buon senso. Di certo in più occasioni Welles ha teso – per sua stessa ammissione – a intestarsi tutto il merito del film, e la prima campagna pubblicitaria della RKO estromesse Mank dalle locandine (fino all’intervento della Screen Writers Guild).
Il film Mank però sembra suggerire (falsamente) che l’autore di discendenza tedesca sia quasi l’unico responsabile della sceneggiatura della pellicola del ’41, traendo ispirazione per questa ingenerosa teoria direttamente dalle parole di Mank (che all’epoca del film era l’esatto opposto della sobrietà alcolica e umana) e da Raising Kane, controverso pamphlet anti-wellesiano (che ormai gode di pessima considerazione) con il quale nel ’71 la critica cinematografica Pauline Kael cercò visibilità ai danni dell’immenso regista.
Da allora quel breve saggio intessuto di forzature e falsità pubblicato in due parti sul New Yorker è stato smentito numerose volte; non solo da una schiera di grandissimi nomi del cinema ma anche dal famoso articolo su Esquire The Kane Mutiny di Peter Bogdanovich, da autorevolissimi contributi pubblicati da Sight & Sound, fino al saggio del 1978 The Scripts of Citizen Kane, con cui Robert Carringer mise un punto fermo alla questione con un impressionante lavoro di documentazione. L’apporto di Welles fu importante quasi quanto quello di Mank, alcune scene chiave inserite nell’ultima bozza e la visione armonica d’insieme sono frutto del lavoro esclusivo di Welles e ovviamente la decisione su cosa includere e cosa no (la più importante) è responsabilità unicamente del regista.
MANK È L’AFFASCINANTE RISULTATO DELLA DEMENZIALE CROCIATA DEI FINCHER CONTRO ORSON WELLES
Alla luce di quanto detto, e dando per scontato che il rapporto familiare tra il regista e lo scrittore di Mank abbia un peso non trascurabile, viene da chiedersi perché mai, ora che abbiamo sufficiente documentazione per giudicare serenamente la vicenda, David Fincher sia così tanto motivato a sminuire l’apporto di Orson Welles al copione di Quarto Potere. Sorprendentemente, andando a scavare un po’ nelle sue dichiarazioni, si scopre però che Fincher non solo vuole testardamente tornare a quelle tesi parzialmente infondate sostenute nel ’71 da Pauline Kael, ma vuole riscrivere la storia facendoci credere che Welles fosse quasi un miracolato.
Nel numero di novembre 2020 del mensile francese Premiere, Fincher si lascia infatti andare a dichiarazioni ai limiti del delirante a proposito del Maestro de L’Infernale Quinlan. Sottolineando le oggettive problematiche legate all’ego ipertrofico di Welles e l’ovvia inesperienza cinematografia al debutto, si scorda però di chi fosse quel genio già prima del ’41 e sminuisce inoltre tutto il resto della filmografia successiva a Quarto Potere. Aggiunge poi con grottesca tracotanza che Orson Welles «era soprattutto uno showman e un saltimbanco sproporzionatamente talentuoso». Una posizione a dir poco ingenerosa – ma a ben vedere semplicemente ridicola – che se non spiega il perché di tanto astio almeno ci aiuta a capire perché la famiglia Fincher abbia così pervicacemente perseguito un progetto che esaltando lo straordinario Mankiewicz mira però anche a riscrivere il ruolo di Welles nella storia del Cinema.
MANK E QUARTO POTERE: SE LA STORIA VERA NON È INTERESSANTE QUANTO LA FINZIONE
I parallelismi tra Mank e Citizen Kane sono molti, e vanno ben oltre le intenzioni di David Fincher. Entrambi i film partono dalle vicende di personaggi reali per romanzarle (con la differenza non trascurabile che il film Netflix usa i nomi veri), tutti e due hanno controversie sugli sceneggiatori (la revisione non accreditata operata sul titolo del 2020 da Eric Roth), trattano in qualche modo il tema della propaganda (con la differenza che Fincher sembra anche volerne fare esercizio attivo) e ancora entrambi hanno dei registi con una stima di sé a dir poco ipertrofica.
Il nuovo film di Fincher però, pur restando uno dei più interessanti del 2020 (anno con una modestissima concorrenza, va detto), non ha nemmeno un centesimo di quella scintilla geniale e di quel labor limæ che hanno fatto del capolavoro del 1941 una delle più grandi pellicole di sempre.
Alcuni momenti di Mank sono fantastici, ma sembra mancare un vero focus tematico
La geniale sceneggiatura scritta a quattro mani da Mankiewicz e Welles, nella sua struttura scomposta che i Fincher tentano miseramente di emulare, costruisce un ordito di richiami tematici, ripetizione di schemi e connessioni inizialmente nascoste che fanno della storia un crescendo di coinvolgimento ed emozione. Lo script di Mank, invece, sembra semplicemente procedere erratico, e assembla in modo frammentario una lunga serie di episodi che non hanno l’epica dell’originale ma anzi il più delle volte, semplicemente, non sono così interessanti. Come se non bastasse, dell’ironia che nonostante tutto serpeggiava nella saga di Charles Foster Kane, qui non c’è traccia. Le cronache raccontano Herman J. Mankiewicz come «l’uomo più divertente di New York», ma il personaggio cui presta il volto Gary Oldman risulta causticamente disilluso, provocatorio, ma mai veramente simpatico.
Al netto di una realizzazione impeccabile su ogni fronte e tanto aderente al cinema degli anni ’40 da risultare straordinariamente mesmerica, di interpretazioni ineccepibili (non solo quella che dovrebbe valere l’Oscar a Gary Oldman) e della colonna sonora con cui Trent Reznor e Atticus Ross seguono pedissequamente le orme di Bernard Herrmann, Mank è sì un dono ai cinefili di tutto il mondo da parte di Netflix, ma al contempo rimane un’operazione indubbiamente un po’ ruffiana e discretamente discutibile. Senza quell’alone di cinefilia, quel bianco e nero e i continui riferimenti a Quarto Potere – ridotto quindi alla sua essenza – finirebbe per essere un film tutt’altro che indimenticabile.
MANK, UN FILM CHE BRILLA DI LUCE RIFLESSA
Per chiosare con un bilancio complessivo, Mank è sicuramente uno dei più grandi eventi cinematografici del 2020, reso possibile solo dalla libertà che oggi Netflix (come la R.K.O. di allora) dà agli autori e che purtroppo non avrebbe avuto grandi speranze di incasso in sala nemmeno se non ci fosse stata la pandemia di Covid-19. Un film che restituisce la giusta memoria a Mankiewicz ma che, mettendolo al centro di tutto, sminuisce colpevolmente la decisiva visione creativa di Welles – senza la quale Quarto Potere non sarebbe stato il film perfetto che da sempre tutti celebrano. «Non si può cogliere l’intera vita di un uomo in due ore», ci dice Fincher, eppure Welles c’era riuscito già nei primi 12 minuti del suo film.
Questo Mankiewicz di Fincher è altresì la quintessenza del rapporto tra gli scrittori di storie e il glam della Settima Arte. Quello di Mank è uno sguardo disilluso, amaro e corrosivo su una sarabanda di potenti festanti a celebrazione del proprio status; la profondità contro il vacuo, la sostanza dei film come forma d’arte a fronte del circo che orbita loro intorno.
La scelta di misurarsi in continui parallelismi con Quarto Potere tradisce uno slancio di ambizione eccessivo anche per un Fincher tanto sicuro di sé da definire Orson Welles un saltimbanco. Eppure, nonostante la sceneggiatura di Mank risalga agli anni ’90, stupisce per la sua significatività in relazione al presente – si pensi al rapporto tra crisi economica e ‘fake news’ sui nuovi media, o anche alla necessità di trovare nuovi modi per riportare la gente al cinema. Ma il merito è probabilmente di Roth.
Al contempo lo spettatore, nel gioco di specchi e rimandi tra Fincher e Welles, non potrà che concludere che quella funambolica parabola da Rosabella (Rosebud) a Candalù (o meglio Xanadu) ha molto più da dire del «groviglio» di uno sceneggiatore burbero e alcolizzato. Semplicemente, il motivo per cui abbiamo bisogno del talento degli sceneggiatori è che la finzione sa essere molto più interessante di una presunta realtà.
In questo mirabile gioco cinefilo che è il film Mank, sincero nella sua ostinata parzialità, le citazioni nella forma e nella sostanza finiscono per essere vetrini colorati buoni solo a stupire nel breve periodo. In un meraviglioso dialogo del film si commenta che «i film continuano ad appartenere ai produttori: col biglietto gli spettatori si comprano solo un ricordo». Ecco, se tra secoli continueremo a celebrare il genio di Orson Welles e dei suoi collaboratori, difficilmente tra qualche decennio ci ricorderemo di Mank. Occhio alla stagione dei premi: gli Oscar difficilmente potranno penalizzare Netflix nell’anno del Coronavirus, e Hollywood adora sentir parlare di Hollywood.