Quarto Potere (titolo originale Citizen Kane), capolavoro di Orson Welles datato 1941, nel corso dei suoi 80 anni di vita è stato frequentemente citato da fonti autorevolissime come il più importante film nella storia del cinema. Vincitore dell’Oscar per la Miglior Sceneggiatura Originale quando gli Academy Awards erano ancora relativamente una novità (quella 14ª edizione vide il trionfo con 5 statuette di Com’era Verde la Mia Valle di John Ford), il film è un’epopea pseudo-biografica che propone nella forma di un puzzle la vita di un miliardario sui generis: Charles Foster Kane.
QUARTO POTERE, LA STORIA VERA DEL ‘CITIZEN KANE’
Quarto Potere è l’epico racconto della vertiginosa ascesa e della rovinosa caduta di Charles Foster Kane, miliardario, imprenditore, editore e politico statunitense. «Un uomo che otteneva ciò che voleva, per poi perderlo» per citare il film. Una ‘storia vera’ americana, che in realtà è un racconto di finzione che dalla verità dell’epoca trae solo ispirazione.
Citizen Kane si apre con due minuti e mezzo che da soli valgono un’intera filmografia: un elegante e potentissimo antefatto silenzioso che presenta le misteriose ultime parole di Kane e racconta la morte solitaria del protagonista, asserragliato nella sua spettrale magione. A seguire ancora un film nel film, quasi un cortometraggio che ‘assale’ lo spettatore: un cinegiornale di 9 minuti per riassumere senza sconto alcuno l’intera vita del controverso magnate appena defunto.
Un’inchiesta giornalistica per scoprire il significato della parola finale: «Rosabella» («Rosebud»)
Quindi la storia principale: un’inchiesta giornalistica per capire chi fosse davvero l’uomo a tutti noto eppure inarrivabile, e quale significato avesse quel «rosabella» («rosebud» in originale) pronunciato sul letto di morte. Un viaggio apparentemente disordinato (ma non sconnesso) nel tempo per rievocare episodi della vita di Kane principalmente nel ricordo altrui. Cinque punti di vista; cinque visioni parziali che restituiscono un caleidoscopio umano tra grandezza e miseria. La storia di un uomo che diventa anche un affresco del mondo che lo circondava; un puzzle che si compone lentamente sullo schermo fino al colpo di scena finale.
È vero che Charles Foster Kane era in realtà William Randolph Hearst?
Una delle semplificazioni consegnateci dalla storia è che Quarto Potere fosse in realtà un film su William Randolph Hearst, gigante dell’industria dei giornali dell’epoca, cui effettivamente Kane somiglia moltissimo. A contribuire a questa granitica semplificazione sia la reazione di smodata avversione che portò Hearst a una guerra aperta contro Welles e il suo film – con un bando dai suoi giornali e cinema che di fatto ne minò il successo al botteghino – sia il fatto che l’uomo fosse in qualche modo parte della vita di entrambi gli sceneggiatori: era infatti una vecchia conoscenza del padre di Orson Welles e un ‘amico’ ormai perduto di Herman J. Mankiewicz. Ma l’opera è molto più di questo.
Come affermò lo stesso regista: «il Sig. Hearst era abbastanza simile a Kane, anche se Kane in realtà non è basato su lui in particolare. Tanta gente ha per così dire ‘posato’ per quel ritratto». Il personaggio intorno al quale ruota lo script firmato da Welles e Mank nasce infatti da influenze molto più eterogenee: a ispirare il copione ci furono pure giganti del giornalismo e dell’imprenditoria come Pulitzer, Northcliffe, McCormick, Insull e Swope, per citarne alcuni. Tutti nomi che diventano tinte di una tavolozza che trascende il particolare per mirare a un affresco universale di ambizione e solitudine.
Secondo molti biografi del cineasta, poi, una delle principali fonti di ispirazione per il personaggio fu Welles stesso – e infatti i punti in comune non mancano. A prescindere dalla perfetta sovrapponibilità di alcuni aspetti biografici e caratteristiche personali, non vi è davvero dubbio che proprio la tracotante e testarda ambizione di Orson Welles gli abbia fatto terra bruciata attorno, come per Kane. «Mi sono sempre sentito isolato; credo che ogni bravo artista si senta isolato» dichiarava il regista ai Cahiers du Cinema nel 1965.
L’esilarante aneddoto dell’incontro tra Orson Welles e Hearst alla prima di Quarto Potere
Uno degli episodi più divertenti legati alla suddetta questione, e che ben riassume il carattere sfrontato del regista, è quello del fortuito incontro tra di loro nella notte della première di Citizen Kane a San Francisco. I due si trovarono insieme in un ascensore del Fairmont Hotel e Welles ruppe un silenzio carico di tensione invitando Hearst all’anteprima. Il magnate non rispose affatto, e come fece per uscire al proprio piano Welles aggiunse sfrontato «Charles Foster Kane avrebbe accettato». Nessuna replica, ma possiamo immaginare cosa sia potuto passare per la testa di Hearst.
QUARTO POTERE IN REALTÀ È (ANCHE) UN FILM SULLA PERDITA
Al netto della questione riguardante William Randolph Hearst, è lapalissiano come Quarto Potere non sia certo il j’accuse che alcuni vorrebbero far credere, dato che per lo spettatore alla fine è impossibile non provare empatia e una certa compassione per quella maschera così paradossale; un potente capace di fare terra bruciata intorno a sé, ma anche un innocente rimasto vittima della propria fortuna.
Proprio con il disvelamento di quel mistero legato a Rosabella, che percorre tutto il film, Welles chiarisce che l’oggetto della sua attenzione non sono affatto la ricchezza o l’onnipotente influenza, ma gli spazi narrativi cui esse sono prodromiche. Il destino di Kane nasce quando questi si scopre erede di un patrimonio miliardario in tenera età, e l’intuizione geniale di Welles e Mankiewicz è proprio quella di mettere il protagonista nella posizione di un semidio. Nulla, nemmeno una vita benedetta da ogni opportunità, può mettere al riparo dalla perdita e dal rimpianto – vero fulcro tematico di un film emozionante in cui chiunque può riconoscersi.
La riflessione sulla comunicazione di massa e il rapporto di grandezze che ne deriva
Uno dei più grandi pregi di Citizen Kane è che il film, proprio come ogni capolavoro, ha sì una vicenda principale, ma è anche dotato di una profondità che permette molteplici livelli di lettura. In filigrana alla vicenda umana di un magnate della stampa – e non uno qualsiasi, ma nel bene e nel male un innovatore alla ricerca del sensazionalismo – troviamo infatti una rete di rimandi al mondo della comunicazione di massa.
La ‘modernità’ del cinegiornale; l’inutile completezza di un’inchiesta giornalistica; il potere della stampa nella comunicazione politica; lo smodato interesse per la vita privata dei personaggi pubblici; il diritto di controllo di un editore sulle singole firme; la manipolazione della realtà: questi e molti altri gli spunti cui ricorre la sceneggiatura. Molti strumentali, appena accennati, ma sempre utili ad ampliare la scala del racconto nel suo insieme e far sembrare ancora più piccolo quel dettaglio infantile che sarà invece la chiave di lettura di tutta l’opera. Grande contro piccolo; molti contro uno. E la fragilità di un miliardario al centro della storia americana è la stessa del sistema dell’informazione: sono entrambi giganti dai piedi d’argilla. Citizen Kane è molte cose, e tutte meravigliosamente in contraddizione.
ORSON WELLES ERA UNA CELEBRITÀ GIÀ PRIMA DI QUARTO POTERE
«Ho cominciato dalla cima e mi sono fatto strada verso il fondo». Orson Welles usa queste beffarde parole per descrivere la sua parabola nel meraviglioso libro-intervista di Peter Bogdanovich Io, Orson Welles. Il suo esordio nel cinema fu infatti un unicum nella storia della Settima Arte, eppure ancor prima che lo studio RKO gli proponesse per il debutto un contratto invidiato da tutti i suoi colleghi (completa libertà creativa e final cut) Welles era già qualcuno.
Non è possibile immaginare Orson Welles senza la sua incontenibile passione per il teatro; quella stessa che l’aveva portato a rifiutare tre copioni della Warner Bros nel 1936 e un ruolo come attore in La Voce nella Tempesta di Wyler nel ’39.
Welles, che per la prima volta era salito sul palco a 3 anni come comparsa all’Opera di Chicago, già da bambino si era distinto nelle pièce studentesche: diresse il suo primo spettacolo, Il Dottor Jekyll Mr. Hyde, a soli 10 anni. Dopo gli studi, più mature esperienze teatrali e la sopraggiunta morte del padre, nel 1931 si traferì a Dublino, dove ottenne un ingaggio fra gli attori principali del Gate Theatre spacciandosi per «un famoso attore newyorkese». A 19 anni sposò l’attrice ed ereditiera Virginia Nicolson, che diresse nel suo primo cortometraggio, The Hearts of Age. Quello stesso anno (correva il 1934) si trasferì a New York e debuttò a Broadway in Romeo e Giulietta, nel ruolo di Tebaldo.
Arriva il successo vero: gli azzardi shakespeariani e gli attori del Mercury Theatre, futuro cast di Citizen Kane
Nel 1936 Orson Welles iniziò a farsi un nome di tutto rispetto nell’ambiente teatrale, proponendo una rivoluzionaria rilettura shakespeariana che fece scalpore: Voodoo Macbeth, in cui l’azione era spostata ad Haiti, le streghe sostituite da stregoni vudù e il cast era interamente formato da attori di colore scelti per le strade di Harlem. Da lì a poco Welles diventò il più celebrato regista teatrale di Broadway.
Dopo numerosi successi, a 23 anni fondò la compagnia teatrale Mercury Theatre – i cui attori ritroveremo poi tutti in Quarto Potere. Il gruppo debuttò con un altro divisivo adattamento shakespeariano firmato da Welles, un Giulio Cesare ambientato nell’Italia fascista che dapprima collezionò critiche negative e in seguito un entusiasmante susseguirsi di ‘tutto esaurito’. Di lì a poco finì sulla copertina di Time magazine.
LA GUERRA DEI MONDI ALLA RADIO: WELLES ANNUNCIA L’INVASIONE ALIENA (E L’AMERICA CI CREDE)
Sempre alla ricerca di nuove idee creative, Welles inizia a portare il suo teatro in radio e sull’emittente CBS propone il Mercury Theatre On Air: una serie di radio-sceneggiati ispirati a classici della letteratura ‘popolare’ (Sherlock Holmes, Dracula, L’Isola del Tesoro, Il Conte di Montecristo). «Per quello che abbiamo fatto sarei dovuto finire in galera, ma al contrario, sono finito a Hollywood». È così che Welles commenterà quel che accadde poi.
In mancanza di altri testi pronti, obtorto collo Welles si trova a dover mettere in scena nella trasmissione un romanzo di fantascienza che ritiene terribilmente noioso: La Guerra dei Mondi di H. G. Wells. Per dargli un po’ di brio – e con esperta malizia – decide di trasformarlo in un finto radiogiornale che annuncia lo sbarco degli extraterrestri sulla terra. La sapiente operazione comunicativa ottiene anche più di quel che Welles sperava: negli Stati Uniti si scatena il panico. Gli americani credono che sia davvero in corso un contatto con marziani ostili e, in un crescendo surreale, il direttore generale della CBS irrompe nello studio in accappatoio per porre fine alla trasmissione, mentre un Welles quasi invasato ripete ilare: «Fatemi continuare! Devono avere paura!».
Quell’incredibile trasmissione finì inevitabilmente al centro del dibattito pubblico americano e regalò a Orson Welles una fama incredibile. Quando arrivò la RKO e si dimostrò pronta a dargli tutto ciò che un regista potesse desiderare, la star Welles era pronta per il suo debutto nel mondo del cinema. Arrivato il momento di girare Quarto Potere, Welles ‘studiò regia cinematografica’ guardandosi tutte le notti per un intero mese Ombre Rosse di John Ford.
LE CONTROVERSIE SULLA SCENEGGIATURA: COSA C’È DI VERO NEL FILM MANK DI DAVID FINCHER
Nel suo film Netflix del 2020 Mank, il regista David Fincher dirige uno script firmato dal padre Jack Fincher e incentrato sul co-sceneggiatore di Quarto Potere Herman J. Mankiewicz. Nella pellicola viene giustamente celebrato lo straordinario talento di Mank, che all’inizio la RKO decise di escludere dai manifesti per cavalcare la sola celebrità di Welles ma che venne prontamente reintrodotto per intervento del sindacato Screen Writers Guild. Al contempo però, basandosi su un articolo della celebre critica Pauline Kael zeppo di inesattezze apparso sul The New Yorker nel 1971 mette Welles quasi ai margini della vicenda, come se quasi non avesse meriti nella stesura.
La posizione di Fincher (e ancor più del padre) verso Welles è di estremo sminuimento, e in una recente intervista il regista di Seven arriva a definire il demiurgo di Quarto Potere come «uno showman e un saltimbanco» che brillava della luce riflessa dei collaboratori che si scelse per il proprio debutto sul grande schermo – citando ad esempio il geniale direttore della fotografia Gregg Toland.
Certo, Welles stesso ha ammesso più volte la sua tendenza a fare inizialmente propri i meriti del lavoro altrui – ad esempio per molte delle innovazioni tecniche introdotte con Quarto Potere. Fincher però si scorda di quale genio avesse già dimostrato Orson Welles prima di arrivare al cinema, e inoltre bisognerebbe ricordare a Fincher quale sia il ruolo di un regista (e Fincher dovrebbe saperlo bene). In quel lavoro orchestrale che è la realizzazione di un film, chi ha la responsabilità della regia non è un solista ma un direttore d’orchestra, e questo non sminuisce in alcun modo il suo impatto autoriale sull’insieme. Se a ciò aggiungiamo che fu proprio il direttore della fotografia Gregg Toland – il più grande di Hollywood – ad andare a cercare Welles chiedendogli di sceglierlo per il suo primo film, è evidente quanto sia miope e ingrata la posizione di Fincher verso il produttore, regista, co-sceneggiatore e attore principale di Quarto Potere.
QUARTO POTERE, I SIMBOLISMI NELLA SCENEGGIATURA DEL FILM
Uno dei più grandi meriti della sceneggiatura (e della messinscena) di Citizen Kane è la capacità della storia di progredire per immagini che affermano e consolidano i concetti fondamentali del film. Un’abilità da sempre padroneggiata nelle sue esperienze teatrali da Welles, che qui raggiunge livelli di assoluta eccellenza.
Un concetto che ritorna a livello simbolico è infatti destinato a sedimentarsi nell’immaginario dello spettatore pur senza distrarlo dal susseguirsi degli eventi. Così abbiamo Candalù (o Xanadu) nella quale Charles Foster Kane costruisce una copia solitaria del mondo all’interno di un recinto; la celeberrima sfera con la neve che è la fragile bolla di un ricordo che per una vita il protagonista ha custodito gelosamente; il «puzzle incompleto» della vita del main character cui rimandano i puzzle che la seconda moglie tenta ossessivamente di ricostruire; le scenografie del teatro dell’opera, stratificate in un fugace e chirurgico finto piano sequenza, che rimandano direttamente alla magione di Kane come a un delirio di disperato egocentrismo.
E poi ci sono i simbolismi affidati alla macchina da presa: la dimensione dei corpi che si modifica nello spazio a sottolineare i sovvertimenti delle posizioni di potere (resi possibili anche dal fuoco profondo e il diaframma chiuso marchio di fabbrica di Toland), e ancora l’inclinazione dell’inquadratura sull’asse verticale per far torreggiare i personaggi o schiacciarli sotto soffitti incombenti.
LA FINE DI ROSABELLA (ROSEBUD): IL SIGNIFICATO DEL PEZZO MANCANTE DEL PUZZLE
Un altro elemento chiave della sceneggiatura del film è ovviamente Rosabella: espediente narrativo che muove la storia e al contempo stele di rosetta che connette improvvisamente una serie di momenti e punti di vista apparentemente slegati. L’indagine sul significato di quelle ultime parole è fondamentale perché uno degli assunti principali del film è che si possa godere della notorietà più sfrenata, aver esposto al giudizio collettivo ogni aspetto della propria vita pubblica e privata, eppure risultare un mistero.
Nessuno capisce mai veramente nessuno, ci dice un Orson Welles incline a un certo autobiografismo. Nessuno quindi inquadra chiaramente Charles Foster Kane: Comunista e Nazista, paladino dei poveri e miliardario che vive di eccessi, teorico della libertà e infido manipolatore, rivoluzionario e reazionario, vittima e carnefice. Nessuno riesce a farsi un’idea di Kane, eppure la verità è lì nascosta in piena luce, e se finisce bruciata per sempre è solo per la sorte beffarda. Le persone non sono risposte, ma domande; come disse il regista stesso: «Lo scopo del film risiede nel porre un problema, non nel risolverlo».
Certo è che, se è vera la leggenda secondo la quale «rosebud» era il nomignolo che William Randolph Hearst dava nell’intimità al clitoride della moglie Marion Davies, non c’è da stupirsi che per questo affronto celato ma osteso Hearst qualche problema se lo sia posto.
PERCHÉ QUARTO POTERE È CONSIDERATO UN CAPOLAVORO?
La grandezza e modernità di Quarto Potere è così palese che non serve certo essere dotti cinefili per capirne la portata. Se anche il film fosse una novità cinematografica in uscita la prossima settimana, alla sua visione resteremmo comunque stupiti per il genio denso, visionario eppure accessibile che lo caratterizza.
Il linguaggio filmico di Citizen Kane propone infatti soluzioni che abbiamo visto un’infinità di volte nei più bei film della storia del cinema, ma – differenza non da poco – le adotta o le impone per primo. Non si può infatti capire l’impatto avuto dal debutto di Orson Welles se non si riflette sul selvaggio pionierismo di un’opera che ha il coraggio di proporre un approccio completamente nuovo a una forma di racconto che del tutto nuova non era. Scena dopo scena, assistiamo a continui riuscitissimi azzardi; un susseguirsi di innovazioni creative e tecniche. Quarto Potere riscrive cos’era stato il cinema fino a quel momento, e porta sul grande schermo qualcosa di mai visto, un Big Bang che espande all’improvviso le possibilità espressive del mezzo filmico.
La fotografia di Quarto Potere
Con una struttura narrativa di una complessità fino ad allora mai vista, Welles e Toland utilizzano la macchina da presa con inclinazioni e posizionamenti innovativi che vogliono esplicitare l’occhio registico anziché nasconderlo, ricorrendo anche a lenti grandangolari che quando in movimento accentuano la sensazione di deformazione artificiale dello spazio. La messa a fuoco diventa nitida in tutto il frame: una scelta in totale controtendenza con quella profondità di campo ridotta che fin lì veniva usata per staccare gli attori dallo sfondo.
La luce non inonda più la scena ma diventa uno strumento creativo fatto di lame fumose che tagliano il buio e rivelano silhouette, assumendo un ruolo narrativo pesante quanto le parole. Probabilmente per via del background teatrale di Welles, le dissolvenze avvengono dal vivo e in modo asincrono, con illuminatori dimmerati a nero direttamente sul set, in funzione anche delle scenografie.
Il montaggio di Quarto Potere
Il montaggio poi sintetizza gli opposti dogmi delle scuole russa e francese, alternando long-take in cui l’azione si svolge su più piani, ipnotiche dissolvenze incrociate e rapidi salti temporali. Per accompagnare agevolmente lo spettatore nel complesso labirinto temporale dello script, un uso allora sperimentale di protesi in lattice trasforma in modo credibile i protagonisti rendendo sempre facile capire quando si stia svolgendo l’azione.
Infine i dialoghi, tradizionalmente ripresi con i montaggio alternato di campo e controcampo, diventano un fluire organico nello spazio. Il ritmo delle argute battute viene affidato a un approccio completamente nuovo, costruito con movimenti di camera che tagliano la scena, geometrie attoriali che si ricompongono nello spazio, scenografie che si spostano fuori camera, e luci e ombre che guidano l’attenzione dello spettatore.
IL FINALE DEL FILM E LA SPIEGAZIONE DEL SIGNIFICATO DI QUARTO POTERE
La storia raccontata di Citizen Kane è quella di una vita vista col senno di poi; una vita spesa a cercare la completezza e spensieratezza di un nido familiare perduto, e segnata da un marchiano errore di valutazione: che un surrogato di quella famiglia potesse essere l’America stessa.
Rosabella (Rosebud) brucia, come bruciano le opportunità mancate. Quello scudo improvvisato, con cui un ancora inconsapevole Charles Foster Kane voleva istintivamente respingere un cambiamento che somigliava troppo a un abbandono, assurge a simbolo di ciò che ha segnato per sempre un’esistenza, per sottrazione.
Il finale di Quarto Potere, un segreto sussurrato a uno spettatore che ne rimarrà l’unico detentore, significa l’incompletezza di un bambino condannato in buona fede dalla madre, e quindi dell’uomo che da lì germoglierà. La volontà di quel piccolo viene calpestata per un futuro dalle mille possibilità. Ma la possibilità è potere, e il potere pone in una posizione di solitudine. Ulteriore solitudine.
«Non fossi stato tanto ricco avrei potuto essere un grande uomo», recita Welles nel film. Messo al centro del mondo, con tutto a portata di mano, l’unico modo che ha Kane per affrontare ciò che lo circonda è andare continuamente oltre, e nel farlo lasciarsi alle spalle sempre un po’ di sé. Un’ascesa continua che non può essere eterna. E più in alto si sale, più rovinosa rischia di essere la caduta.
La psicologia di Charles Foster Kane: il narcisismo al cinema
Spogliato di tutta la pompa e l’area d’influenza che lo circonda, Charles Foster Kane si rivela umano, troppo umano. Una figura apparentemente onnipotente, capace di fagocitare tutto quel che la circonda, per cui la vita è un’eterna sfida con se stesso. Ma non accontentarsi mai, cercare inesaustamente un’impresa ancora più grande, è in realtà la proiezione di una continua ricerca di approvazione, del bisogno di dimostrare il proprio valore, e anche un modo per autosabotarsi. Quel ‘rifiuto’ infantile ha sepolto nell’animo di Charles Foster Kane un’idea tanto semplice quanto pericolosissima: spente le luci della ribalta, Kane saprà di non essere mai abbastanza, di dover sempre dare qualcosa in più.
Il protagonista di Quarto Potere è stato più volte definito l’incarnazione di Narciso sul grande schermo. Convinto di potere tutto, arrogante, affamato di ammirazione, avverso a ogni critica, disposto a troncare ogni rapporto, fa del suo ego ipertrofico uno scudo per nascondere un’insicurezza atavica: Kane è praticamente il ritratto del narcisismo patologico, ed è proprio questa contraddittoria ed esplosiva combinazione di travolgente forza e inconsapevole fragilità a rendere il personaggio scritto da Mankiewicz e Welles tanto sfaccettato eppure archetipico.
QUARTO POTERE, UN’OPERA CHE ANCORA OGGI CI PARLA DI NOI
Parlare di un’opera d’arte in termini semplicistici e assolutisti è sempre segno di miopia, ma definizioni pur grossolane come «il film più importante di sempre» o «il miglior film della storia del cinema» hanno quantomeno un solidissimo fondamento di verità. Quarto Potere infatti, a prescindere dalle polemiche sulle attribuzioni di merito e dall’esito successivo della carriera di Welles (che passerà molto più tempo a cercare inutilmente finanziamenti per i suoi film che a lavorare dietro la macchina da presa), è un evento tettonico di portata epocale, destinato a riscrivere l’orografia delle più alte vette della Settima Arte.
Nessun film successivo, infatti, riuscirà mai più ad avere quello stesso impatto innovativo su ogni fronte. È come se un ipotetico Dio del cinema avesse deciso all’improvviso di farci aprire gli occhi e ci avesse mostrato attraverso il lavoro di un gruppo di straordinari e indomiti talenti come la ripresa del movimento potesse diventare la più eterogenea e completa delle arti.
Non solo. Di un’opera d’arte quel che conta davvero è l’impatto sull’immaginario collettivo, e non solo nei suoi oltre 80 anni di vita Citizen Kane è diventato un continuo punto di riferimento, ma è ancora in grado di avere un dialogo diretto con il pubblico del XXI secolo. Tutt’altro che polveroso, mantiene quella sua profonda complessità pur restando incredibilmente godibile e accessibile.
Tutto questo perché è un’opera che, con l’espediente dell’inchiesta giornalistica, ha il sapore metafisico di un giudizio ultraterreno, e ci costringe a fare i conti con le nostre vite. In fondo, l’esistenza di ogni uomo è come quella di Charles Foster Kane: una valanga che inizia da qualche fiocco di neve.
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