«Io sono l’acqua… semplicemente fluisco. Non ci sono sistemi o ideologie». Fu lo stesso Kim Ki-duk, tragicamente morto l’11 dicembre 2020 per complicazioni legate al Covid-19, a pronunciare le parole che meglio di altre oggi spiegano il suo modo di fare cinema. Il suo percorso artistico è stato sicuramente inusuale, giacché a differenza dei suoi colleghi (compatrioti e non), egli sbarcò nel mondo della Settima Arte senza alcuna preparazione nel settore: non aveva mai frequentato una scuola per imparare le tecniche di regia né aveva mai lavorato nell’ambito cinematografico. Ha iniziato a dirigere film in modo istintivo, portando sullo schermo la realtà e inserendo moltissimi elementi provenienti dalle sue esperienze passate. Un talento vero legato a una vera urgenza creativa, di cui sentiremo enormemente la mancanza.
KIM KI-DUK: L’ESIGENZA DI RACCONTARE LA VITA
«Tutto quello che ho provato nella mia vita prima di diventare regista si è trasformato nel materiale che ha dato origine ai miei film: ci ho messo dentro la mia esperienza». Nascono così pellicole come Wild Animals (ricca di richiami al periodo in cui il regista visse come pittore di strada), The Coast Guard (che fa riferimento in modo esplicito alla sua esperienza all’interno dell’esercito coreano) e Pietà (ambientata nel quartiere di Cheonggyecheon, cuore dell’industria informatica coreana, che rievoca la sua adolescenza trascorsa a lavorare in fabbrica).
Nonostante ciò, i film di Kim Ki-duk non possono essere definiti realistici: il cineasta presenta vicende tratte dalla vita vera ma le reinterpreta secondo il suo personale punto di vista. Il suo è un cinema dell’Io, fortemente soggettivo. Inoltre inserisce spesso nelle storie elementi fantastici che fanno slittare la realtà nell’ambito del surreale e del sogno, creando così un nuovo genere da lui stesso definito realismo astratto. A tal proposito è possibile citare film come Bad Guy e L’Isola, in cui dettagli realistici e fantastici si intersecano al punto da rendere difficile la distinzione tra ciò che effettivamente accade nella pellicola e ciò che è solo nell’immaginazione dei protagonisti.
LA POETICA DEGLI OUTSIDER NEL CINEMA DI KIM KI-DUK
«[…] Non credo che i miei film siano al cento per cento realistici. Nella vita ci sono molte cose che non capiamo, avvenimenti crudeli che ti provocano dolore: a questi elementi io aggiungo immagini fantastiche e così ne traggo un’altra interpretazione della realtà». I lungometraggi di Kim Ki-duk mettono in particolare evidenza la realtà degli emarginati, di tutte quelle persone che vivono al di fuori della morale comune. Prostitute, senzatetto, strozzini e assassini sono protagonisti delle opere del filmmaker coreano, il quale mostra in maniera esplicita il degrado e la solitudine che invadono le loro esistenze.
Spesso la crudezza delle immagini scuote lo spettatore, lo fa uscire allo scoperto per ripensare al suo sistema di valori. La violenza mostrata senza filtri né censure non è, però, mai fine a se stessa; non viene evidenziata dal regista per impressionare il pubblico: è invece il mezzo con il quale Kim Ki-duk esplora il lato più oscuro dell’essere umano. Egli, penetrando nelle ferite dei suoi personaggi, mostra come l’uomo riesca a rimanere aggrappato alla sua umanità anche nelle situazioni più degradate.
KIM KI-DUK E LA RINASCITA NELLA VIOLENZA
«[…] Nei miei film non uso la violenza per creare sensazione o scandalo. Non voglio che essa diventi uno spettacolo fine a se stesso e nemmeno che sia la metafora per parlare d’altro. In ogni sequenza dove compare la sopraffazione cerco di introdurre l’idea che attraverso il dolore qualcosa di nuovo può nascere». Individui soli e privi di affetto riescono ancora ad amare (e in qualche modo ad essere amati) nonostante la loro apparente incapacità totale di rapportarsi con gli altri: il protagonista di Coccodrillo, violento e senza moralità, scopre l’amore grazie ad una donna e diventa più benevolo con il prossimo; Kang-do, protagonista di Pietà, riesce a provare compassione per le sue vittime solo dopo aver riscoperto l’affetto della madre che lo aveva abbandonato da bambino.
SCENEGGIATURE DI POCHE PAROLE
Un’altra caratteristica del cinema di Kim Ki-duk che colpisce e destabilizza in modo particolare il pubblico occidentale è la scarsità di dialoghi all’interno delle sue opere. Interi film scorrono senza che i protagonisti pronuncino anche solo una parola poiché la comunicazione tra loro avviene attraverso il corpo. Spesso però si tratta di una comunicazione dolorosa che avviene attraverso ferite che i personaggi infliggono a se stessi e agli altri. Per fare un esempio, nel film L’Isola Hee-jin e l’uomo di cui si è innamorata entrano in contatto tra loro con lacerazioni che entrambi si procurano sul corpo con gli ami da pesca.
Nelle pellicole di Kim Ki-duk la parola spesso perde il suo valore comunicativo e il regista esprime i sentimenti anche con i suoni: è così che la musica assume un ruolo molto importante, dando voce ai personaggi che non ne hanno esprimendo le loro emozioni. Emblematico a tal proposito è l’esempio di Ferro 3, in cui la musica crea un legame di intimità fra i due protagonisti che non parlano nemmeno una volta durante tutto il racconto.
IL LINGUAGGIO REGISTICO ESSENZIALE DI KIM KI-DUK
Il cinema poetico e riflessivo di Kim Ki-duk, inoltre, non lascia spazio ad un montaggio complicato. Le pellicole del regista coreano sono caratterizzate, infatti, da una essenzialità formale che esalta la profondità dei sentimenti rappresentati nelle vicende. «Non do molta importanza alle varie tecniche di ripresa: per questo litigo spesso con gli operatori e i direttori della fotografia! Per me la semplice presenza della macchina da presa come occhio che vede quello che c’è davanti, mi garantisce già il 99% di tutto quello di cui ho bisogno. […] Tutti gli altri sforzi per abbellire l’inquadratura aggiungono solo l’1% al risultato».
Con un linguaggio fortemente espressivo, simbolico e ricco di significati profondi, il cinema di Kim Ki-duk aveva la capacità di sconvolgere con la schiettezza delle immagini, spesso crude e prive di filtri, perché possedeva una forza tale da convincere lo spettatore ad abbandonare gli schemi morali tradizionali per poter cogliere sentimenti autentici anche nell’essere umano più spietato e crudele.