Fear (Strah) del navigato attore e regista soprattutto teatrale Ivaylo Hristov è una storia che pare essere già finita ancora prima di cominciare. Selezionato nel concorso lungometraggi del Trieste Film Festival 2021 dopo essere stato eletto Miglior film al Golden Rose Bulgarian Feature Film Festival di Varna, dove è stato presentato in anteprima, e Miglior Film Black Nights IFF di Tallin, il film raccoglie la delicata tematica dell’immigrazione e ne fa una parabola placida ma non per questo meno pungente, tanto ironica quanto amara.
Fear (Strah), film bulgaro che racconta l’ignoranza e le paure
Fear (Strah) inizia all’interno di una scuola silenziosa, abbandonata, dentro un’aula che invece di accogliere gli schiamazzi degli alunni si fa solamente contenitore vuoto, privo di funzione. Qui incontriamo per la prima volta Svetla (Svetlana Yancheva), la magnetica protagonista del nostro racconto. È lei, uscendo, ad applicare il nastro sulla porta d’ingresso di quell’edificio, come a sancire, come dicevamo poco sopra, che da queste parti le cose sembrano già essersi concluse da un pezzo.
Svetla era un’insegnante e ora ha perso il lavoro, così come un tempo era sposata e da diversi anni ha perso anche il marito, amore di una vita lontana anni luce il cui unico punto di raccordo con il passato è il tempo trascorso sulla sua tomba. D’altronde Hristov suggella questa finitudine a partire dalla scelta del bianco e nero che spazza subito via le sfumature, schiaccia agli antipodi, svuota dei significati intermedi e lascia spazio solo agli estremi. Da una parte c’è il bianco, dall’altra c’è il nero. Nel mezzo parrebbe non esserci nulla, anche se è proprio nel mezzo di qualcosa che si trova il villaggio dove vive Svetla.
Più precisamente sul confine tra Bulgaria e Turchia, un piccolo angolo di mondo dimenticato da ogni dio che eppure è inaspettato crocevia di un’umanità spesso indesiderata, quella dei migranti. Allora eccoli gli estremi, i due mondi di cui parla una fiction in televisione e in merito ai quali invoca una guerra che, appunto, è più costrutto dello scalpore del primo pomeriggio televisivo che materia di questa realtà fatta di disperazione sì, ma rassegnata e quasi mai violenta. Lo ammette persino il comandante del piccolo distaccamento militare locale davanti alle telecamere dello scoop giornalistico che qua non accade mai niente di clamoroso, nonostante i suoi giovani sottoposti (gli unici volti della post-adolescenza del film, maschili e incompiuti) si ripromettano di menare le mani come unica possibilità di sfogo.
In Fear (Strah) il bianco e nero è al servizio di una società polarizzata
E quindi è ancora qui che il bianco e il nero di Fear (Strah) trova la sua ragion d’essere, che schiaccia le cose o dalla parte degli “eroi bulgari”, che ammettono sì di essere ospitali ma fino a un certo punto perché a tutto c’è un limite, oppure da quella di Svetla che uno di questi uomini lo accoglie pian piano in casa. Ma Bamba (Michael Flemming), questo il nome dell’irriverente rifugiato maliano, non diventerà mai punto focale del film che rimane centrato su Svetla e sul duello (ricordiamo già finito, sciupato, svuotato di senso) che la donna con la sua scelta ingaggia nei confronti della miopia del villaggio che a poco a poco la emargina, che le dà della “puttana”, di quella che “se la fa con i negri”.
Come sottolinea lo stesso Hristov l’unico orrore al quale il titolo del film – paura – si ricollega è quello che esiste nell’adiacenza tra la tristezza, le incertezze personali e le reazioni violente e insensate di ciò che c’è al di fuori (della comprensione), con il tutto pronto a sfociare in una pantomima dell’assurdo mediata dal vibrante umorismo di cui è permeato l’intero film. Perché Fear (Strah) vive di un’escalation degli eventi terribile, mai acuita da strappi o shock enfatizzati narrativamente ma non per questo meno acida nel corrodere un racconto impietoso nell’inquadrare la grettezza degli esseri umani, pennellati perfettamente dalle vedute a volo d’uccello che il regista riserva ai numerosi scheletri di enormi palazzi incompiuti frutto della speculazione edilizia. Il finale gioca sull’assurdo che ha il sapore della speranza che si affloscia, che torna indietro perché è l’unica cosa che può fare dopo aver iniziato con qualcosa di già terminato e che ha rinunciato dal primo istante all’imparare a conoscere.