Se avevate riposto in Wonder Woman 1984 la speranza di veder risollevate le sorti del fin qui sciagurato DC Extended Universe, ci rammarichiamo di dovervi dare subito una brutta notizia. Il film che porta la firma di Patty Jenkins (già alla regia del primo capitolo dedicato all’Amazzone nel 2017) non inverte la tendenza alla quale l’universo condiviso della DC Comics ci ha fin qui abituati, anzi.
Le premesse d’altronde non sono delle migliori nemmeno nell’andare a considerare il contesto di rilascio di questo progetto, che vede le sue riprese partire nel 2018 con una finestra di distribuzione prevista nel corso del 2020. Sappiamo tutti com’è andata e allora Wonder Woman 1984 qui da noi arriva direttamente con una release in digitale, di fatto il primo cinecomic a scegliere questa via dopo un anno di assenza dalle scene cinematografiche anche dei principali competitor in materia, i Marvel Studios.
WONDER WOMAN 1984, IL PRIMO CINECOMIC DELL’ERA COVID-19
Un sentiero che appare castrato in partenza, con un prodotto privato della dimensione ideale per la quale è stato concepito: quella del ludico che solo una sala può offrire nel pieno delle sue potenzialità. Ciò che dopo la visione amaramente conforta, non senza una sana dose di ironia, è come nemmeno l’esperienza della sala – dimensione ideale per film come questi – avrebbe potuto salvarne le sorti. Di fatto ciò di cui Wonder Woman 1984 è orfano, dal primo all’ultimo frame, è della capacità di incendiare le polveri dell’attrazione deputate a farsi miccia pirotecnica, paese dei balocchi e cacofonico “luna park”.
La Jenkins, in sceneggiatura assieme a Geoff Johns e David Callaham, mira piuttosto all’intessere un racconto che vorrebbe andare a ragionare sul senso del desiderio personale e sulla capacità alla rinuncia. Per la prima ora buona di girato (su circa due e mezzo complessive) si gira attorno a una costruzione quasi intimista dei rapporti tra i personaggi e sulle motivazioni che li muovono, dove la Wonder Woman di una Gal Gadot – sempre più in esclusiva modalità “espressione intensa” – vive più che altro alla luce del giorno con il suo lavoro allo Smithsonian Institution di Washington.
WW84 E GLI ‘ALTRI’ ANNI ’80
I panni da eroina vengono vestiti nel gran segreto della sua vita parallela, dove con una fugace intro ai limiti del grottesco fuori tempo massimo l’Amazzone ci mostra anche l’ipercapitalismo degli anni ’80 nella loro più sfavillante veste. Ecco, una delle trovate vagamente interessanti del film è il successivo approcciare il periodo storico tramite una chiave di lettura alternativa al ritorno in auge degli eigthies (per intenderci, Stranger Things), lavorando invece – o tentando di farlo – sull’isterica tensione che la tacita Guerra Fredda, unita alla corsa al dollaro, cela dietro il velo del “pop”.
WONDER WOMAN 1984 RIESCE A SEGNARE UNO STANDARD NEGATIVO PER IL GENERE
Certo, non ci aspettavamo poi chissà quale particolare approfondimento nell’elaborazione psicologica dei personaggi (vanamente speranzosi quantomeno di ricevere sul contraltare un adeguato utilizzo dell’action), ma risulta più blando del solito il trattamento riservato a protagonisti che, in potenza, potrebbero attingere molto proprio dal contesto nel quale sono calati. Torna lo Steve di Chris Pine (sul come e perché, se vorrete, lo capirete da soli), ma la sua presenza, che chiaramente rappresenta un certo tipo di anomalia narrativa, si converte invece in una continua sensazione anticlimatica, anche a discapito dell’effettiva importanza del personaggio, di dubbia utilità ai fini del racconto che in definitiva vive solo in riflesso dell’evoluzione di Diana.
UN ESEMPIO DI COME SPRECARE DUE ANTAGONISTI POTENZIALMENTE OTTIMI
Il Maxwell Lord di Pedro Pascal è invece un villain che di cose da dire ne avrebbe (soprattutto in riferimento all’occulta e famelica macchina dei sogni di quegli anni ’80 di cui scrivevamo prima), ma finisce per scivolare nel cliché della rivalsa personale a ogni costo, con tanto di soprusi di infanzia buttati lì sullo schermo tramite un immancabile flashback finale di raccordo sull’esistenza di questo derelitto magnate del petrolio.
Quello che però è il personaggio più ingiustificatamente gettato alle ortiche dell’intero film è la Barbara Ann Minerva di Kristen Wiig. La sua Cheetah, predatrice alfa mutante e mutabile, avrebbe tutte le carte in regola per rappresentare l’ideale modello di sovversione delle gerarchie di genere molto più di quanto non faccia il personaggio della stessa Gadot. I discorsi al femminile del post #MeToo declinati in chiave superomistica e di “evoluzione della specie sociale” sono lì pronti per essere raccolti e sfruttati, ma per la caratterizzazione di Barbara al contatto con la contemporaneità è preferito il topos del brutto anatroccolo, in una forma a cavallo tra il Peter Parker di Tobey Maguire e l’Electro di Jamie Foxx.
E su questa scia Wonder Woman 1984 pare davvero essere un film vecchio di almeno dieci anni, complice la sua incapacità di intercettare la minima narrazione che lo ancori al presente, così come manifesta anche un’inadeguatezza a livello di effetti visivi che reca perplessità in un film di questo calibro produttivo (circa 200 milioni di budget) e in questo momento storico della tecnica digitale. Ma si diceva che il film appunto non fa rimpiangere la sala anche perché di ludico da queste parti c’è ben poco (e quello che c’è rimane appunto estremamente discutibile), pronto a emergere svogliatamente in un paio di frangenti che qualificano la povertà di pensiero creativo dietro a un lavoro talmente sbiadito e privo di personalità da segnare un nuovo standard al negativo in materia cinecomic.