A metà degli anni ‘90, poco prima di Fargo, i registi e sceneggiatori Ethan e Joel Coen si erano ormai affermati agli occhi di una certa critica indipendente come autori di un cinema intelligente e originale, soprattutto grazie a film come Blood Simple – Sangue facile, Arizona Junior, Crocevia della morte e Barton Fink – È successo a Hollywood. Il loro quinto film, invece, non andò proprio come previsto: per Mister Hula Hoop si trovarono a gestire un budget di 25 milioni di dollari ma il botteghino ne restituì indietro pochissimi, meno di un decimo.
Per la prima volta i fratelli Coen capirono di trovarsi di fronte ad un bivio: dopo quel costosissimo flop il loro successivo progetto sarebbe stato quello decisivo, quello capace di rilanciare la loro carriera oppure di affossarla definitivamente. Sarà anche per questo che quando il loro amico e socio, il voice actor William Preston Robertson, lesse la sceneggiatura del sesto film che Ethan e Joel avrebbero voluto mettere in scena, andò letteralmente nel panico, considerando quel progetto il suicidio definitivo della loro carriera cinematografica: «è la più strana, bizzarra e inaccessibile di tutte le storie che avete scritto», disse. La sceneggiatura era, per l’appunto, quella di Fargo.
FARGO, I FRATELLI COEN E QUELL’INEDITO MIX DI NOIR E GOFFAGGINE
Lo script di Fargo sembrava tanto inaccessibile perché a tutti gli effetti sconvolgeva i codici cinematografici, rompeva gli schemi narrativi e non era inquadrabile in nessuna categoria vista prima di allora. Una storia oscura che parlava di omicidi, ricatti e rapimenti ambientata nel freddo Minnesota (la patria degli autori) del 1987 che però, allo stesso tempo, era anche una narrazione piena di umorismo, di personaggi bizzarri e di situazioni al limite del grottesco.
Da una parte un’agente di polizia, Marge Gunderson (Frances McDormand, Tre Manifesti a Ebbing, Missouri), alle prese con alcuni omicidi che sconvolgono la vita di una placida cittadina della profonda provincia americana; dall’altra la vicenda di un piccolo venditore di auto, Jerry Lundegaard (William H. Macy), che assolda due malviventi (Carl, Steve Buscemi e Gaear, Peter Stormare) per simulare il rapimento della moglie e chiedere un riscatto al ricchissimo suocero (la star dei musical di Broadway Harve Presnell).
Fin qui un noir, ma, a guardarlo bene, qualcosa di meno o, forse, qualcosa di più. Perché l’agente di polizia è una mite donna incinta il cui passatempo preferito è guardare la televisione a letto con il marito Norm (John Carroll Lynch); perché il venditore di auto è tutt’altro che un malfattore lucido e astuto ma piuttosto un perdente incapace perfino di raccontare bugie, e perché i due malviventi sono i più impacciati, maldestri e incapaci mai visti prima. Insomma, vista da lontano la storia di Fargo ha uno schema classico (quasi hitchcockiano), familiare, riconoscibile. Ma più ci avviciniamo e ci soffermiamo sui dettagli e sulle sfumature, e più scopriamo come tutto sia fuori posto, inaspettato e totalmente privo di logica.
FARGO E LA STORIA VERA DI UNA STORIA FALSA
Eppure la forza invisibile ma irresistibile di Fargo è proprio la sua capacità di sovvertire le aspettative di chi lo sta guardando. I fratelli Coen sono consapevoli di offrire al pubblico dei codici cinematografici ben consolidati dalla convenzioni hollywoodiane eppure in modo elegante, ironico e sotterraneo quelle attese sono puntualmente tradite. Un primo depistaggio i Coen ce lo fanno assaggiare ancora prima dell’inizio, quando un cartello introduttivo ci avverte che stiamo per vedere “un film basato su una storia vera”, un’informazione che inesorabilmente finì per condizionare la visione e le speculazioni successive, con molti spettatori che cercarono di capire a quali fatti esattamente faceva riferimento il film. Addirittura nel 2001 una donna giapponese di nome Takako Konishi fu ritrovata morta congelata vicino ai laghi di Detroit mentre – pare – stesse cercando i soldi che vediamo sepolti dal personaggio di Steve Buscemi.
Il problema è quei soldi non mai stati sepolti e nemmeno sono mai esistiti: dopo aver cambiato più volte la versione sull’argomento, Joel Coen qualche tempo fa ha ammesso la storia di Fargo era inventata di sana pianta e che “una storia vera” va intesa nel senso che “è vero che è una storia”. Il fatto che ispirò maggiormente una scena del film non ha niente a che vedere con quei luoghi ma è quello di una donna del Connecticut, Helle Crafts, che nel 1986 fu uccisa dal marito Richard, il quale poi si sbarazzò del cadavere utilizzando una cippatrice. L’unico fatto fedelmente riportato è il concerto di José Feliciano in un locale della zona, cosa che in effetti corrisponde al vero (qualche attimo prima viene inquadrata la vera locandina dello show).
SE FARGO NON È A FARGO
Dopotutto (secondo depistaggio) un film intitolato Fargo avrebbe dovuto svolgersi a Fargo nel Nord Dakota, oppure la città di Fargo avrebbe dovuto almeno essere una sorta di luogo metaforico carico di significati (un po’ come la Chinatown di Polański). Ma al contrario di quello che si pensa nessuna ripresa di Fargo è ambientata a Fargo anzi, la maggior parte del film non è nemmeno ambientata nel Nord Dakota, ma piuttosto in Minnesota, principalmente a Minneapolis-St. Paul (qualcuna perfino in Canada). Anche a causa delle nevicate insolitamente scarse di quell’anno le scene che richiesero paesaggi innevati furono girate nel Minnesota settentrionale, ancora più lontani dalla città del titolo del film. Inutile dire che Fargo non è nemmeno è un luogo dell’anima o metafora di qualsiasi altra cosa, ma i Coen ce lo fanno pensare, prendendo in giro quelle convenzioni hollywoodiane di cui sopra.
In realtà il luogo (o non luogo) di Fargo è semplicemente l’ambientazione ideale per fare una tabula rasa completa dei codici e dei generi. Il paesaggio è vuoto, appiattito e desolato: un orizzonte in cui cielo e terra non si distinguono nemmeno più a causa del bianco accecante e anzi si compenetrano, rendendo tutto sfumato, vago e indecifrabile. Questo mondo mette in evidenza la decadenza morale (il sangue) di cui vivono i personaggi di Carl, Gaear e Jerry, ma è anche un mondo che pare organizzato su un senso di orizzontalità infinita, priva di ogni profondità, come il linguaggio dei personaggi/pedine che lo attraversano: sottolineando sia la banalità della realtà che viviamo tutti i giorni ma anche delle convenzioni cinematografiche che abbiamo in testa.
DELLA POLIZIOTTA INCINTA E DELLE ASPETTATIVE DISATTESE
Tutti questi depistaggi finiscono per caratterizzare anche i personaggi del film, le trame o le sottotrame. Pensiamo alla protagonista, l’agente di polizia Marge. Frances McDormand non era incinta durante le riprese, quindi non è per questo che il suo personaggio aspetta un bambino. Lei è incinta perché quella “condizione” permette al film di sovvertire una delle regole della narrativa hollywoodiana: se un personaggio principale di un film aspetta un bambino, ci aspettiamo o che lei stia per partorire (probabilmente in un momento cruciale del film) o che in qualche modo finirà per perdere il bambino in un modo traumatico.
Fargo è l’eccezione della regola, perché la gravidanza non ha alcun impatto sulla trama, il bambino rimane al sicuro all’interno della pancia della madre e allo stesso tempo non lo vedremo mai nascere. Dunque il film semplicemente ha come protagonista una poliziotta incinta e il resto delle nostre aspettative su questa condizione del character sono spiazzate o tradite. Lo stesso personaggio di Marge è al centro di una sotto trama quando durante una trasferta di lavoro trova il tempo di cenare con una vecchia fiamma del liceo, Mike (Steve Park). Lui racconta a Marge che sua moglie è morta, scoppia a piangere e ammette di essere ancora innamorato di lei. Normalmente una tale interruzione nella narrativa investigativa come questa produrrebbe una sorta di complicazione emotiva o coniugale che influisce sull’indagine stessa, soprattutto se l’investigatore è una donna. Ma anche qui la convenzione viene totalmente disattesa: Marge è felicemente sposata con Norm e Mike è un corpo estraneo che scompare velocemente dalla storia.
Qui però la sovversione è doppia: perché anche se ingannevole, questa divagazione è fondamentale, non per dove (non) ci porta ma per cosa rappresenta per la protagonista. Quando Marge scoprirà che la moglie di Mike è ancora viva, rivaluterà l’ultimo interrogatorio che ha avuto con Jerry che, come il suo ex compagno di Liceo, le stava raccontando una bugia riguardo al rapimento di sua moglie.
IL GENIALE ROGER DEAKINS E LA SUA FOTOGRAFIA FATTA DI CONTRASTI
Ma se le nostre aspettative sono quasi tutte tradite, la vera traccia narrativa è dettata non dalle nostre percezioni di quello che stiamo vedendo, ma dalle immagini stesse: pochissimi film come Fargo riescono a imbastire un linguaggio cinematografico tanto curato e così simbolicamente narrativo.
Quel genio della fotografia cinematografica che è Roger Deakins (leggi il nostro speciale sulla fotografia di Blade Runner 2049) qui scelse di utilizzare una tavolozza di colori che contrastasse gli esterni rigorosamente bianco-grigi con gli interni caldi e colorati, come se ci trovassimo davanti a due mondi: quello glaciale e inaridito delle strade e quello avvolgente e consolante delle case. Per restituire al meglio il paesaggio desertico e glaciale di Fargo Deakins utilizzò in ogni caso pochissima luce artificiale, assorbendo il più possibile il candore della luce riflessa dalle distese ghiacciate e facendolo confliggere con il rosso ruggine del sangue nelle scene più pulp.
Il vero problema invece fu – paradossalmente – la mancanza di neve. In molte scene è stata ricreata (quando ad esempio William H. Macy la raschia via dalla macchina nel parcheggio), mentre in altre si è dovuto agire in modo tempestivo inseguendo la natura. Ad esempio la splendida scena iniziale della bufera di neve accompagnata dalla colonna sonora di Carter Burwell è stata catturata “al volo” da un assistente di Deakins mentre il resto del set, compresi i Coen, stava girando gli interni degli uffici di polizia.
LA PROGETTAZIONE DELLE INQUADRATURE SECONDO I FRATELLI COEN
In questo universo di neve (vera o finta che sia) che è Fargo, il vero gioco narrativo lo fanno però le inquadrature: ognuna di esse ci racconta le interiorità dei personaggi, le loro relazioni con gli altri o i sentimenti che nascondono. Ad esempio, nella scena in cui Marge per la prima volta sta per uscire di casa c’è un conflitto cromatico in un’inquadratura che è quasi divisa a metà: Norm è ripreso sul lato sinistro mentre è seduto al tavolo della cucina, immerso in un giallo-verde avvolgente, mentre sulla destra Marge cammina fuori verso una rarefatta alba blu.
Anche se da prospettive diverse, i due personaggi vivono insieme nello stesso quadro, condividono le loro scelte di vita, sono in qualche modo collegati. Al contrario il personaggio interpretato da Macy è quasi sempre ritratto in solitaria: quando torna a casa e scopre che il falso rapimento della moglie è avvenuto viene ripreso con un teleobiettivo che ha l’effetto di appiattire la prospettiva e allontanarlo dalla scena, evidenziandone la solitudine; quando lo rivediamo dentro il suo ufficio nel provare a dissimulare le sue reali intenzioni appare quasi un corpo estraneo al mondo che lo circonda, spiato fra le linee verticali delle tende che ricordano, quasi come un presagio, le sbarre di una prigione.
Sono solo alcuni esempi di un film interamente costruito su un design dei frame curatissimo, in cui regia, scenografia e fotografia concorrono nel dare una testimonianza lampante di come i fratelli Coen siano, sopra ogni cosa, degli artigiani del set: pianificano i loro film non solo come semplice storie da raccontare, ma come vere e proprie esperienze visive.
IL SUCCESSO DI FARGO, CHE CAMBIÒ LA CARRIERA DI JOEL E ETHAN COEN
Quando uscì nelle sale nel marzo del 1996, Fargo diventò fin dalle prime settimane un successo commerciale senza precedenti, ottenendo al tempo stesso una risposta altrettanto entusiasta da parte di tutta la critica (il decano della critica Roger Ebert sentenziò: «uno dei migliori film che abbia mai visto»).
A Cannes Joel Coen si portò a casa il premio per la Miglior Regia mentre, a fine stagione, il film fu nominato per sette premi Oscar, vincendo nelle categorie Miglior Attrice Protagonista e Miglior Sceneggiatura Originale. Già nel 1998 l’American Film Institute lo inserì all’ottantaquattresimo posto della classifica dei migliori cento film statunitensi di tutti i tempi e, oltre alla McDormand, Fargo lanciò definitivamente la carriera di Steve Buscemi, William H. Macy, Peter Stormare e Harve Presnell.
L’influenza del film fu così dirompente che andò oltre i confini del cinema e nel 2012 il network statunitense FX decise di ordinare una serie antologica che traesse ispirazione e immaginario dall’omonimo film, con i Coen come produttori esecutivi. Il Fargo seriale esordì nel 2014 ed ebbe un successo clamoroso. Nel frattempo è arrivato alla sua quinta stagione (in lavorazione) e negli anni ha conquistato una cinquantina di premi per le opere televisive su circa 230 nomination.
Basterebbe questa eredità per considerare Fargo una delle opere cinematografiche più innovative di sempre. Ma il vero merito forse è quello di essere stato il film che ha lanciato in modo indiscusso la carriera di due fratelli registi, rendendo la loro poetica qualcosa di riconoscibile, potente e immortale. «Molte cose possono capitare nel bel mezzo del nulla», recitava la tagline del film. Nel bel mezzo del nulla a noi è capitato di incontrare il capolavoro assoluto dei fratelli Coen.