Siamo nella Chicago del 1967. Malcolm X è stato assassinato un paio d’anni prima, mentre la stessa sorte toccherà a Martin Luther King da qui a qualche mese, nel 1968. Il riformista Lyndon B. Johnson è riconfermato presidente dopo essere subentrato a un altro assassinato, John Fitzgerald Kennedy, e nel frattempo il controverso J. Edgar Hoover è saldamente al comando di una più efficiente che mai FBI.
Questo è il rapidissimo volo sulla tesa e infuocata realtà degli Stati Uniti dove Judas and the Black Messiah instaura il suo racconto di ideali, lotta e tradimento. Il film scritto (insieme a Will Berson) e diretto da Shaka King questo racconto lo porta avanti con certamente meno esplosività o impulso schizofrenico di quanto non faccia, ad esempio, Spike Lee con Blackkklansman o Da 5 Bloods. Il tradimento di William O’Neal, morto suicida nel 1990, ai danni del leader della sezione Illinois delle Pantere Nere Fred Hampton, un altro morto ammazzato all’età di appena 21 anni, non si porta però dietro meno tratto incisivo nel ritrarre la caleidoscopica rivoluzione che il giovane Hampton stava conducendo nella sua città.
La composizione drammaturgica di Judas and the Black Messiah è quadrata, puntuale nell’inserirsi all’interno di consolidati schemi di fruizione hollywoodiani che non si interessa di sovvertire a livello strutturale, ma sui quali, piuttosto, lascia agire l’influenza dei temi e dei volti. Troppo comodo, troppo agio nel non scomodare alle radici le modalità di pensiero e quindi di assimilazione dello spettatore bianco occidentale? No, non crediamo, perché volti come quelli dei due protagonisti della faccenda (seppur candidati agli Oscar entrambi, inspiegabilmente, come non protagonisti), gli a dir poco fenomenali Daniel Kaluuya (Hampton) e Lakeith Stanfield (O’Neal), segnano un tassello ulteriore nella cementificazione di un divismo politico del black cinema statunitense contemporaneo. È un lavoro che si fa sull’iconico, sulla potenza della simbologia appunto messianica, per rimanere in tema – basti pensare all’influenza culturale, anche pop, del recentemente scomparso Chadwick Boseman.
Insomma non è superfluo raccontare della Rainbow Coalition che Hampton compattò assieme sotto l’egida dei suoi discorsi e dalla sua forza unificatrice, organizzazione multiculturale e militante che non poco impensierì i quadri statali che appunto trovarono il modo di infiltrare da molto vicino. Racconto di icone, ma anche del modo in cui il mondo può essere spaccato tra bianco e nero, tra il bianco e il nero, dove quest’ultimo può essere catalogato come selvaggio reazionario o cane ammaestrato, inebriato dall’odore di qualche dollaro in biglietti da cento. In ogni caso, qualche grado inferiore ai diritti riservati all’umano, come testimoniano le decine e decine di colpi sparati dalla polizia durante il raid in cui Hampton è finito ammazzato.
È una narrazione che ai trascinanti comizi di un Kaluuya massiccio e tutto d’un pezzo contrappone la profonda tenerezza dell’intimità e del privato, oppure del broncio compiaciuto ma via via sempre più increspato di uno Stanfield che incarna il doppiogioco (con Kaluuya in sintonia dai tempi di Get Out di Jordan Peele) e l’ignavia con una maestria disarmante. Non è affatto scontato mettere in ballo l’identità di lotta e le contraddizioni che a questa vorticano attorno così come fa Judas and the Black Messiah, soprattutto alla luce del magmatico periodo storico che la comunità afroamericana sta attraversando (ancora una volta).
Così come non è affatto esercizio scontato che sull’epidermide di un film per certi versi canonico vengano incise tracce di una strutturazione più complessa, come quella di delineare un po’ di più i capisaldi di una nuova cinematografia black, o come quella che per la prima volta nella storia degli Academy Awards, 93enni, vede un film prodotto esclusivamente da afroamericani (lo stesso regista, Charles D. King e Ryan Coogler) venga candidato a Miglior film. Da queste parti da riflettere ce n’è eccome.
Judas and the Black Messiah, come altri titoli Warner, a causa della pandemia di Coronavirus salta l’uscita in sala e debutta direttamente in streaming sulle principali piattaforme on demand. Concorrerà agli Oscar 2021 nelle categorie Miglior Film, Miglior Attore Non Protagonista (con due distinte nomination), Miglior Sceneggiatura Originale, Miglior Fotografia e Miglior Canzone.