Songs My Brothers Taught Me, dramma familiare ambientato in una riserva di indiani d’America, è il primo film di Chloé Zhao. Già con il suo The Rider la regista e sceneggiatrice cinese formatasi tra Stati Uniti e Londra aveva raccolto consensi unanimi e un palmarès di tutto rispetto, ma è con la sua ultima opera Nomadland che per lei arriva la consacrazione definitiva, suggellata dal Leone d’Oro a Venezia 2020, da due Golden Globe da tre premi Oscar – per il Miglior Film, la Miglior Regia e la Miglior Attrice Protagonista. È proprio in concomitanza con il trionfo agli Academy Awards che la piattaforma MUBI decide di proporre in streaming nel suo catalogo il lungometraggio d’esordio della cineasta asiatica, datato 2015.
SONGS MY BROTHERS TAUGHT ME E LE STORIE DI UNA RISERVA INDIANA
Chloé Zhao, che oltre a dirigere, montare e co-produrre, sceneggia anche il film, presenta un’opera intimista e allo stesso tempo cruda, senza compromessi, su due fratelli, Johnny e Jashuan, nativi Sioux Lakota che vivono nella riserva di Pine Ridge, in South Dakota. Songs My Brothers Taught Me poggia sul legame indissolubile dei due ragazzi che si trovano a fronteggiare, spalla a spalla, una situazione familiare difficile: la madre, fragile e incapace, è praticamente assente nella loro vita, il fratello maggiore è in prigione mentre il padre, celebre rodeista che ha sparso nella riserva altri 23 figli avuti da 9 mogli diverse, è deceduto da poco.
Johnny è all’ultimo anno di liceo, guadagna qualche soldo rivendendo sottobanco alcolici (la riserva ne proibisce il commercio) e non vede l’ora di partire insieme alla sua fidanzata Aurelia alla volta di Los Angeles, dove lei è stata ammessa al college. Jashaun invece ha 11 anni, adora il fratello e vive con leggerezza quello che le accade intorno.
IN SONGS MY BROTHERS TAUGHT ME GIÀ L’ESSENZA DEL CINEMA DI CHLOÉ ZHAO
Sullo sfondo delle vite dei protagonisti di Songs My Brothers Taught Me campeggia la deprimente realtà della riserva, fatta di sogni che difficilmente si spingono oltre i cartelli che la delimitano. I vecchi cavalcano, fumano ossessivamente e s’ubriacano non appena riescono a rimediare qualche lattina di birra; i giovani non possono far altro che seguire il loro esempio. Il ritratto che Chloé Zhao dipinge di questi personaggi è aspramente autentico, senza mitizzarli né affossarli. Li rappresenta per come sono, innocenti disadattati, come Travis, ex galeotto con problemi di alcolismo e il corpo ricoperto di tatuaggi, che si fa aiutare dalla piccola Jashuan a vendere i vestiti che tesse, o Billy, anziano proprietario terriero con un lessico fatto di insulti e parolacce, che procura le bottiglie da vendere a Johnny.
La regista si fa semplice osservatrice dietro una macchina a mano che strizza l’occhio al cinema del reale (come nei suoi successivi lavori, che hanno continuato a incorporare la finzione nel documentario) ma che nasconde molto di più: il barcollio delle inquadrature, mai dolce, mai sinuoso, mai mascherato, è il simbolo degli spigoli aguzzi di questa vita da “rinchiusi”, dove si diventa grandi in fretta pur rimanendo bambini a vita.
Infatti, Johnny e i suoi coetanei, molti dei quali “fratelli di madre diversa”, sono appena maggiorenni ma hanno già negli occhi la delusione, la fatica, l’esperienza, anche se si dimostrano ancora, giustamente, infantili sotto molti aspetti umani, come l’empatia e l’intimità. Esplicativa in questo senso è la relazione tra il protagonista e la fidanzatina, con i loro baci impacciati, le carezze esitanti e i modi timidi.
LA POETICA DI CHI «SI AFFIDA ALLA FORZA DEL VENTO»
Dietro l’obbiettivo, colorati dalla fotografia limpida di Joshua James Richards – compagno della regista che l’ha affiancata anche nei lavori successivi – risplendono le prove di John Reddy (Johnny) e Jashuan St.John (Jashuan), veri Lakota agli esordi da attori ed entrambi perfetti nell’incarnare lo spirito dei personaggi. Lui mette in scena l’atteggiamento deciso di un adulto, l’espressione insicura di un ragazzo e gli occhi curiosi di un bambino, mentre lei, nei sui tratti così dolci, conserva quel qualcosa di diverso che le permette di «amare questo posto, di vedere cose che io non riesco a percepire», come dice Johnny alla fine del film.
Songs My Brothers Taught Me è lo scorcio di una realtà dove «bisogna affidarsi alla forza del vento, per non essere spazzati via dalla tempesta», dove l’uomo e la sua natura selvaggia convivono, a volte pacifici, a volte impetuosi, una realtà difficile da abbandonare perché è tutto ciò che si ha mentre si cresce. E Chloé Zhao, questo scorcio, lo ricava con una maestria e una forza visiva rarissime da incontrare in un film d’esordio, prime testimonianze del suo luccicante talento e di quel ‘cinema giornalistico’ di cui si fa coraggiosa esponente.