Chi segue la parabola del cinema indipendente americano sa che l’autrice di First Cow, Kelly Reichardt, è un punto di riferimento inevitabile per una serie sconfinata di autori più recenti. Dopotutto, nel corso di una carriera venticinquennale (sette lungometraggi, inclusi due autentici capolavori come Old Joy e Meek’s Cutoff), la regista di Miami ha costruito un suo personalissimo linguaggio cinematografico, una sorta di neo-Neo Realism che attinge tanto da Rosellini quanto a Flanagan, con l’obiettivo di indagare le dinamiche sociali e culturali dell’America contemporanea senza rincorrere opere di “denuncia sociale”.
Anzi, per dirla meglio, entrare in un film della Reichardt non significa affrontare una storia, bensì attraversare uno scorcio di vita che spesso si riduce ad essere un sistema simbolico contraddistinto da una manciata di elementi chiave e una manciata di personaggi al di là del quale la nostra coscienza critica finisce per essere sottilmente perturbata e radicalmente alterata. First Cow, già in competizione a Berlino nel 2020 e finalmente in streaming su Mubi in Italia dopo un breve passaggio in sala in Italia, non fa eccezione.
L’amicizia fra due outisider al centro di First Cow
Scritto con il suo storico collaboratore Jon Raymond (già autore del romanzo The Half-Life a cui il film è ispirato), First Cow è introdotto da uno dei Proverbi dell’Inferno di William Blake ( “All’uccello un nido, al ragno una tela, all’uomo amicizia”). Subito dopo la Reichardt ci fa vedere una giovane donna e il suo cane (ricordate Wendy e Lucy?) che per puro caso scoprono sulle rive di un fiume due scheletri umani mentre giacciono fianco a fianco con una mano sopra l’altra. Un prologo che ci proietta, dopo un’ellissi temporale, a un secolo e mezzo prima, quando nell’Oregon dell’800, King-Lu (Orion Lee) e Cookie Figowitz (John Magaro) si incontrano nel deserto e iniziano a frequentarsi, cercando sostegno l’uno nell’altro.
King-Lu è nato in Cina ed è arrivato nel nuovo mondo sognando di aprire un albergo in California, una sorta di archetipo dell’imprenditore cosmopolita; Cookie invece ha vissuto una vita ai margini e ai voli pindarici del compagno di ventura preferisce la propria filosofia spicciola fatta di scetticismo e cose semplici. Due outsider – così diversi fra loro eppure così necessari l’uno all’altro – che alla fine diventeranno partner commerciali di una stravagante quanto vincente startup: cucinare e vendere delle frittelle aromatizzate al miele e alla cannella che in poco tempo diventano una vera e propria prelibatezza per gli abitanti della zona. Tutto bene, finché qualcuno non scopre la fortunata impresa di street food si regge sul del latte rubato alla “prima mucca” dell’Oregon, parcheggiata nel cortile di casa di un nobile regale inglese, Chief Factor (Toby Jones).
First Cow, un anti-western sul nascente capitalismo americano
Raccontato così, First Cow ha qualcosa di spensierato e di umoristico ed effettivamente tutto il film si muove fra una sottile satira sociale e un presagio terribile che aleggia nell’aria. Da una parte è il racconto di una parabola economica e politica – con tanto del comportamento della domanda e dell’offerta in relazione scarsità delle materie prime; dall’altra è un ritratto dissacrante delle relazioni di potere della frontiera americana, una sorta di anti-western in cui però all’individualismo eroico si contrappone l’amicizia utilitaristica dei due protagonisti. Qui però la Reichardt complica ulteriormente il discorso perché King-Lu e Cookie non sono accusati di essere stati preda di impulsi proto-capitalisti, ma anzi sono entrambi vittime di una lotta universale fra uomo e uomo (e fra uomo e natura) per scovare successo e fortuna nelle promettenti colonie americane.
Non è un caso che First Cow consolidi i temi potenti di tutto ciò che l’ha preceduto nel cinema della Reichardt: la nascente America della frontiera del XIX secolo al centro di Meek’s Cutoff; le frustrazioni economiche di Night Moves; l’immersione nella natura di Certain Women; il vagabondaggio ai margini della società di Wendy e Lucy. Ma forse, più di tutto questo, il film esplora gli ideali genuini e virtuosi che le prime comunità americane, cosmopolite e poliglotte, inseguivano prima che quella corsa si trasformasse in un’ideologia spietata e svuotata di relazioni umane. Una terra delle opportunità che unisce, contro una terra del profitto che divide. Tanto che il sottotitolo di questo film potrebbe essere “il capitalismo che avrebbe potuto essere e non è mai stato”.
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Fra Altman e Jarmusch: i riferimenti di First Cow
Per restituire questo paesaggio storico, sociale ed umano la Reichardt attinge a due filoni cinematografici molto diversi fra loro. Da una parte la rappresentazione di alcune ambientazioni “gastronomiche” ci riporta a una serie di film, da Il pranzo di Babette di Gabriel Axel a Tampopo di Jūzō Itami, passando per Big Night di Stanley Tucci; dall’altra recupera l’autenticità e il minimalismo di alcuni western revisionisti come McCabe e Mrs Miller di Robert Altman e Dead Man di Jim Jarmusch. In contrasto con la verticalità del western di Altman, First Cow è però rigorosamente orizzontale.
La Reichardt infatti rivolge lo sguardo in basso, non allarga mai troppo l’orizzonte dell’inquadratura (imprigionata nel 4:3 dal direttore della fotografia Christopher Blauvelt), con il risultato di rendere ancora più intestina la lotta di Cookie e King Lu nel fango preindustriale della frontiera ed evidenziare l’ostilità di un paesaggio che minaccia continuamente di inghiottirli. Dopotutto è la stessa natura che pervade il film a rappresentare una presenza invisibile e avvolgente, un elemento arbitrario e selvaggio impossibile da controllare e dentro al quale la “legge della giungla” e “la legge degli uomini” finiscono per riflettersi come due forze diverse ma guidate dalla stessa brutalità.
Accompagnato da una delicatissima colonna sonora per chitarra e mandolino scritta da William Tyler, First Cow si conclude con un finale amarissimo, chiudendo il cerchio con il prologo e rivelando la traiettoria di un’America avida di cui Cookie e King Lu sono forse le prime storiche ed anonime vittime. Eppure, sembra dirci la Reichardt, quella non è mai stata l’unica traiettoria realizzabile. Un’altra America era possibile.