La Terra ha una data di scadenza ed ormai da anni noi stiamo facendo tutto il possibile, e a volte anche l’impossibile, per avvicinarla sempre più. Gli studi in materia sono innumerevoli, ma molti identificano nel 2050 una data convenzionale per indicare un possibile punto di non ritorno nell’impatto antropico sull’ambiente. Alla luce di ciò è particolarmente distopico e sconfortante il 2063 nel quale il regista e sceneggiatore Neil Burger (Sempre Amici, Limitless, The Illusionist) ci porta con il suo Voyagers, nuovo titolo Universal che vede nel cast Tye Sheridan (Ready Player One), Lily-Rose Depp (L’Uomo Fedele) e Colin Farrell (Il Sacrificio del Cervo Sacro).
IN VOYAGERS UN’ELITE DI COLONIZZATORI CRESCIUTA PER SALVARE LA RAZZA UMANA
In Voyagers il nostro mondo è ormai preda di una tremenda siccità e l’unica soluzione per la sopravvivenza umana è spostarsi su un altro pianeta. Ne viene identificato uno, apparentemente perfetto, ma occorrono 86 anni per raggiungerlo. L’equipe scientifica, allora, studia un piano: vengono concepiti in vitro 30 bambini – 15 ragazzi e 15 ragazze – accoppiando tra loro i geni delle menti più brillanti del tempo, e vengono allevati ed educati fin da piccolissimi in strutture speciali.
Il loro compito sarà partire da adolescenti alla volta del lontano pianeta e intanto riprodursi a bordo in modo che una terza generazione – i figli dei loro figli – sia sufficientemente forte e nel pieno della salute fisica per colonizzare la nuova umanità. Ad accompagnare nella missione di questi giovani prodigi c’è il ricercatore Richard (Farrell), praticamente l’unico adulto del film e mentore dei ragazzi. La situazione a bordo inizierà a incrinarsi quando alcuni di loro, scoprendo di venir quotidianamente drogati per reprimere pulsioni umane come l’amore, la passione, la gioia o il dolore, decideranno di ribellarsi.
Questo, insieme alla misteriosa morte di Richard, porterà i trenta a scindersi in due gruppi distinti: pochi ancora sostenitori della missione e tanti disillusi, contrari al sacrificare la propria vita in nome dell’umanità. Di lì a poco i rapporti si deterioreranno sempre di più, fino ad arrivare ai feroci scontri finali.
VOYAGERS: QUESITI ESISTENZIALI IN CHIAVE SPAZIALE
In Voyagers Burger torna allo sci-fi e allo young adult, generi che gli hanno garantito un ottimo successo con Limitless prima e con Divergent poi. Le basi sociologiche e filosofiche della storia sono sicuramente interessanti, per quanto non certo inedite: la mente corre ovviamente al Big Brother letterario di Orwell ma anche al cinematografico Equilibrium di Wimmer, ma gli esempi potrebbero essere mille.
I quesiti alla base del lungometraggio non sono certo inediti: la natura dell’uomo è effettivamente quella di una bestia? È forse possibile che le regole delle società anestetizzino le nostre pulsioni primitive, nascondendo il nostro essere semplici animali, feroci e istintivi? Nella sceneggiatura di Burger però, delle disquisizioni sul principio plautino dell’homo homini lupus in salsa spaziale rimane poco, poiché il prodotto finale è in realtà evidentemente penalizzato da una fattura sciatta e frettolosa.
IN VOYAGERS UN CAST DI GIOVANI TALENTI NON BASTA A SALVARE DALLA BANALITÀ
Le resa filmica di Voyagers risulta infatti scolastica e meccanica, senza picchi memorabili. Prova a rivitalizzarsi con il montaggio, inserendo il rincorrersi frenetico di immagini, già presente in Limitless, per evocare il riaffiorare delle emozioni nei vuoti protagonisti, ma il risultato stride con la freddezza del resto dell’opera. Dietro alla macchina da presa, Burger finisce per nascondersi, quasi avesse paura di sovraccaricare il suo film.
Eppure gli attori da soli non bastano a reggere in piedi l’opera, nonostante il cast annoveri nomi importanti. A fianco del ben noto Colin Farrell troviamo infatti dei giovani che già hanno ampiamente dimostrato le proprie doti attoriali: Tye Sheridan a 25 anni ha un curriculum ricchissimo, tra collaborazioni con Alverson, Malick, Spielberg e Singer e un premio Mastroianni a Venezia; Lily-Rose Depp (Il Re, Planetarium), che dal padre ha ereditato quello sguardo assoggettante, è già più che lanciata; Fionn Whitehead lo abbiamo ritrovato in Dunkirk e nel film interattivo Bandersnatch di Black Mirror, e infine Isaac Hempstead Wright si è fatto conoscere come il Bran Stark de Il Trono di Spade. Nonostante l’indubbia capacità degli attori, però, il modo in cui certi snodi drammaturgici vengono sollecitati – quasi forzati – mina l’equilibrio della storia. Si pensi alla parabola caricaturale con la quale un piccolo genio ribelle si trasforma in un antagonista completamente pazzo.
In conclusione Voyagers intriga con le sue premesse, sembra scorrere bene e illude promettendo un epilogo degno; ma poi, a conti fatti, propone una chiusura rabberciata e banale. L’impressione finale è che Voyagers sia il tiepido risultato tra il Burger sceneggiatore, sicuramente meno scialbo, e il Burger regista, monotono e commerciale. C’era bisogno di più finezza, di più eleganza, più cura dei dettagli per fare che il film funzionasse appieno.