Brutti, Sporchi e Cattivi, appena rilasciato in una nuova edizione blu-ray CG Entertainment restaurata da nuovo master HD e accompagnata nell’edizione limitata da un bellissimo booklet di 24 pagine, è un capolavoro del 1976 firmato da Ettore Scola e interpretato da Nino Manfredi.
LA COLLOCAZIONE DI BRUTTI, SPORCHI E CATTIVI NELLA FILMOGRAFIA DI ETTORE SCOLA
Brutti, Sporchi e Cattivi esce nei cinema italiani in mezzo a quelli che sono forse i due film più famosi di Ettore Scola: C’eravamo tanto amati e Una giornata particolare. Entrambe le opere del regista di Trevico raccontano storie di impegno civile, seppur con toni diversi: la prima è una commedia, la seconda è quasi un dramma da camera ambientato fra una terrazza e una piccola casa. Ciò che i due film hanno in comune è un contesto temporale segnato profondamente dalla seconda guerra mondiale (che è appena passata in un caso e sta per arrivare in un altro) e nel quale è facile capire chi sono i buoni e chi sono i cattivi, chi ha ragione e chi no, chi sono gli oppressi – in un certo senso – e chi gli oppressori.
BRUTTI, SPORCHI E CATTIVI COME ANTITESI DI UN MIRACOLO A MILANO
Nel 1976 sono anche passati esattamente 25 anni da un film sul proletariato di un certo Vittorio De Sica, che racconta di un gruppo di poveri che si salva tramite la magia, per la precisione una colomba in grado di salvare la vita al personaggio di Totò (Francesco Golisano), dando a lui e alla sua famiglia acquisita la possibilità di scappare dai bruti, trovare da mangiare, esprimere desideri che verranno esauditi. Vale la pena di citarlo, Miracolo a Milano, perché insieme a Brutti, Sporchi e Cattivi ritrae il cambiamento delle prospettive e dell’atmosfera italiana nell’arco di un quarto di secolo.
Miracolo a Milano, datato 1951, si colloca nei primi anni della ricostruzione post-bellica ed è permeato dalla voglia del proletariato di uscire dalla propria condizione e di garantirsi una vita decente, svolgendo una professione senza essere sfruttati e avendo accesso a possibilità comuni anche ad altri; il film di De Sica racconta uno slancio, un movimento verso il miglioramento di una classe intera che sembra essere possibile solo tramite la magia e trova il suo climax nel “duello” finale fra Totò (con la sua magia) e il ricco signore che sfrutta le armi per impadronirsi di qualcosa che non possiede. Brutti, Sporchi e Cattivi, invece, pare collocarsi nel perfetto opposto dello spettro cinematografico.
Brutti, Sporchi e Cattivi non somiglia al neorealismo di De Sica e nemmeno ai precedenti film d’impegno civile dello stesso Ettore Scola. È un’opera che esiste in un reame tutto suo, in un genere che non è definibile poiché dramma e commedia – miserie e risate – si intrecciano e mischiano come in pochissime altre opere. Questo perché la dialettica fra i personaggi non ruota attorno al confronto fra ricchi e poveri, fra padroni e proletari, bensì attorno a uno che possiede qualcosa e tanti che hanno niente.
IN BRUTTI, SPORCHI E CATTIVI CADE LA RETORICA ETICA TRA IL POVERO E IL ‘PADRONE’
Il pugliese Giacinto Mazzatella conserva quella piccole dote che si sente fortunato ad avere ottenuto – anche se gli è letteralmente costata un occhio della testa – e non solo non è disposto a condividerla, ma è ossessionato dal fatto che qualcuno possa anche solo lontanamente attingervi. Al contrario di Miracolo a Milano, dove il povero trova fortuna e divide, in Brutti, Sporchi e Cattivi non vi è alcuna differenza fra il ricco che desidera possedere e Mazzatella.
Scola nel film mette in scena con straordinaria efficacia un concetto che potremmo ricollegare alle riflessioni che Elias Canetti proponeva nel suo magnum opus pubblicato nel 1960 dopo 38 anni di stesura, il saggio Massa e Potere, e che nella pellicola si presenta sotto forma di un singolo che possiede (il personaggio di Nino Manfredi) e di una massa chiusa e disordinata che insegue un fine comune ma senza alcun tipo di ideologia, piuttosto per un naturale bisogno di miglioramento.
«BEATI MONOCULI IN TERRA CAECORUM»
Secondo l’adagio medievale poi rielaborato da Erasmo da Rotterdam, «nel paese dei ciechi, l’orbo è re». E allora in Brutti, Sporchi e Cattivi vediamo lo sciame disordinato che è la famiglia Mazzatella – che non ha mai visto alcuna ricchezza – mentre si alterna tra i saltuari impieghi più o meno legali e mentre scorrazza per casa venendo continuamente insultata dal capo-famiglia. L’acme di questa caotica rappresentazione della “massa” è la splendida scena della visita alle poste per intascare la pensione della nonna; quasi impostata come una scena di guerra, come se fosse l’assalto di un esercito verso un accampamento.
Il capo famiglia dei Mazzatella, d’altro canto, conduce un’esistenza che risponde a regole diverse: va a prostitute, nasconde il denaro, si sveglia pensando con l’ossessione di averlo perso per poi ricordarsi dove lo ha nascosto. In quella famiglia è un “sovrano” per il semplice fatto di aver sbarcato il lunario; non con un miracolo come nel film di De Sica, bensì tramite una menomazione fisica.
IN BRUTTI, SPORCHI E CATTIVI NON C’È SPAZIO NÉ PER IL PIETISMO NÉ PER INTENTI ASSOLUTORI
Il protagonista di Brutti, Sporchi e Cattivi, grazie alla maestria di Scola, non si merita nemmeno un singolo sguardo di compassione, né è soggetto a quella sorta di beatificazione del povero cui certe opere cinematografiche ci hanno abituato – anche in gran parte del Neorealismo la loro condizione li rendeva in qualche modo automaticamente buoni.
Di piste per farci capire chi sia buono e chi cattivo in quest’opera non ce ne sono. Ettore Scola distrugge il mito della povertà come categoria da compatire, e allo stesso tempo non si preoccupa di raccontare una parabola di crescita nella quale si esce da una condizione per entrare in una migliore. Al contrario, il film finisce “peggio” di come è iniziato. Il caos aumenta, le bocche da sfamare pure e i posti si riducono. Meno metri quadrati a persona, pertanto maggior possibilità che i soldi finiscano e che qualcuno di questi brutti, sporchi e cattivi, si veda costretto finalmente a trovare un’occupazione reale. Ecco perché il film di Scola, nel suo sovvertire una narrazione pluridecennale, si rivolge – raccontandola – a un’Italia forse meno povera ma di certo anche meno speranzosa, e nel farlo si staglia come un capolavoro del nostro Cinema.