«Per superare l’ostacolo bisogna tornare al conflitto iniziale». Secondo la regista Sol Berruezo Pichon-Rivière il conflitto iniziale è essere genitori, figli, famiglia. La cineasta argentina torna sui temi a lei cari dell’intreccio dei ruoli familiari, così come aveva fatto in Mamà, mamà, mamà, il suo primo lungometraggio che nel 2020 le valse la menzione speciale della giuria internazionale del Festival di Berlino nella sezione Generation.
Con Nuestros Días Más Felices, presentato nella sezione Biennale College del Festival di Venezia 2021, la Pichon-Rivière indaga in particolare sui mutamenti di comunicazione in una visione “circolare” della famiglia. Un’operazione spericolata, dove i rischi di cadere nel banale e nel retorico sono sempre presenti, ma che la regista aggira con grande abilità nel dirigere gli attori e con una messa in scena suggestiva, intrigante e stilisticamente pulita nonostante forse qualche simbolismo di troppo.
LA TRAMA DI NUESTROS DÍAS MÁS FELICES
Nuestros Días Más Felices è incentrato su un nucleo familiare composto dalla madre Agatha e dai figli Leònidas ed Elisa. Leònidas ha trentasei anni, lavora in un negozio di giocattoli e ha un rapporto simbiotico con la madre. Il suo corpo da adulto non corrisponde quasi mai al suo comportamento mite, quasi infantile. L’uomo è attratto dall’Islanda e dai suoi vulcani. Il caso (o forse no) vuole che quando in Islanda un vulcano si risveglia dopo 800 anni, anche in Leònidas si risvegliano una personalità e una sessualità probabilmente rimaste dentro di lui per troppi anni. Elisa invece ha trentotto anni ed è l’unica della famiglia ad aver costruito una sua vita indipendente.
I due fratelli, così distanti tra loro, si trovano nuovamente insieme per via di un episodio singolare e inatteso. Agatha infatti, dopo avere festeggiato il suo settantesimo compleanno, una mattina si sveglia con il corpo di una bambina di otto anni. Leònidas ed Elisa sono costretti ad accudirla in tutto. Ma relazionarsi ad un nuovo corpo porterà inevitabilmente anche a nuovi linguaggi e a gestire nuovi ruoli dove, ancora una volta nella cinematografia della Pichon-Rivière, la famiglia è un groviglio in continua mutazione e perennemente da dipanare.
NUESTROS DÍAS MÁS FELICES E UN EQUILIBRIO DEGLI OPPOSTI
In Nuestros Días Más Felices i punti di forza e di debolezza dei legami seguono la forza e la debolezza delle singole persone che compongono la famiglia: «quando stavi dentro la mia pancia – dice la Agatha bambina alla figlia Elisa – tu non volevi uscire, sentivo che lì stavi bene. Poi il medico disse che il mio corpo era pronto, spinsi forte e ti partorii. Credo che quello sia stato il mio primo fallimento come madre».
Una certa banalità dell’idea legata alla moderna pedagogia di un’educazione reciproca tra genitori e figli, insieme a un insistito parallelismo tra condizione senile e infantile, rappresentava una trappola nella quale era quasi inevitabile cadere, ma che l’autrice argentina aggira in buona parte, aggiungendo alla storia una messa in scena molto ricercata, elegante e spettacolare pur non ricorrendo a particolari artifici ed equilibrando in questo modo una sceneggiatura potente con immagini potenti.
CON NUESTROS DÍAS MÁS FELICES PICHON-RIVIÈRE STUPISCE
In Nuestros Días Más Felices un ruolo importante anche della colonna sonora; musiche e canzoni molto ricercate, raffinate e scanzonate quanto basta per non scadere, anche in questo caso, in uno scontato infantilismo. Interessante, seppur probabilmente con una manciata di minuti di troppo, l’evoluzione iniziale della storia di Agatha, Leònidas ed Elisa, punteggiata da un predicatore in TV che dà consigli e ricette su come essere felici.
La preparazione al cambiamento della famiglia rimbalza con l’immagine del guru attraverso un montaggio molto interessante, appropriato e puntuale. Ma ciò che più colpisce nel suo complesso è come una giovanissima regista venticinquenne sia già così padrona della macchina da presa, abbia le idee chiare sulla dinamica delle scene e che, soprattutto, diriga gli attori – compresa una bambina – rendendo credibile anche l’incredibile. Nel finale simboli e metafore sono forse eccessivi, ma superati dalla bellezza delle immagini e dalla commozione della conclusione. Una vera fine o un altro, nuovo, inizio? Sol Berruezo Pichon-Rivière consegna l’interrogativo a ogni singolo spettatore.