La Santa Piccola di Silvia Brunelli è stato presentato a Venezia 78 nella sezione Biennale College. Il film, basato sull’omonimo romanzo di Vincenzo Restivo, conta nel cast Francesco Pellegrino, Sophia Guastaferro, Gianfelice Imparato (Il “Don Ciro” di Gomorra, 2008).
DI COSA PARLA LA SANTA PICCOLA? LA TRAMA DEL FILM
Annaluce (Sophia Guastaferro) è una bambina che, in un piccolo quartiere di Napoli, viene inneggiata a Santa dopo alcuni presunti miracoli. Nel frattempo, il giovane fratello Lino (Francesco Pellegrino) si prende cura della madre depressa, mentre di sera si diverte con il suo amico Mario. Sarà l’inaspettata situazione che coinvolgerà la sorella a offrire una via d’uscita alla tragica condizione familiare.
LA SANTA PICCOLA: IL FILM CHE PARTE DALLA SUPERSTIZIONE POPOLARE
Il film inizia con un irriverente accostamento di inni: quello alla Madonna e quello alla squadra del Napoli. Su questa prima impronta si costruisce la grammatica de La Santa Piccola, un film che naviga bene fra superstizione, religiosità, profanazione ed erotismo spinto. La cornice partenopea fornisce il giusto spunto di realismo, dovuto anche all’utilizzo del dialetto.
IL FILM DI SILVIA BRUNELLI CHE OSCILLA TRA SACRO E PROFANO
Come espediente per La Santa Piccola, il film della Brunelli assume la tragica storia di una famiglia, innalzandone il senso di precarietà, scarsa serenità e responsabilità. Qui, la regia incrocia sequenze che passano dal divertimento di Lino a quelle dell’immacolato sguardo della bambina. Così è resa con evidenza l’oscillazione fra il sacro e il profano. Un procedimento che si verifica anche con le musiche, in cui note religiose e il frastuono da discoteca si accostano con facilità.
LA SANTA PICCOLA NON SI RISPARMIA SULL’EROTISMO SPINTO
Con questo stile La Santa Piccola arriva dritto al punto: la contraddizione di due principi che convivono l’uno con l’altro, rievocando il più antico binomio greco dell’apollineo e del dionisiaco. E la Brunelli vuole riportarlo nel panorama della città di Napoli – con sequenze sulla perdizione e l’orgiastico che rievocando un po’ Gomorra (Garrone, 2008) un po’ La grande Bellezza (Sorrentino, 2013). E lo fa senza rinunciare all’esplicito utilizzo di scene erotiche, arrivando a rendere un ménage a trois come un’elevazione spirituale.
UN VELO DI LEGGEREZZA RICOPRE IL TRAGICO NEL FILM DELLA BRUNELLI
Allo stesso modo, ogni livello linguistico è coinvolto nell’espressione del binomio sacro-profano. Le stesse imprecazioni in napoletano stretto (forse anche troppo) ne sono un segno evidente. Tutto questo la Brunelli riesce a farlo con un velo di leggerezza, rendendo alcuni passaggi più vicini alla commedia che al drammatico. Ecco che la polarizzazione si estende alle categorie sociali dell’individuo simil-facinoroso, che minaccia la povera famiglia, e del prete (Gianfelice Imparato) che invece la sostiene.
IL RUOLO DEL MIRACOLO IN LA SANTA PICCOLA
Di fronte a questo ossimoro si fa spazio l’altro tema rilevante: la necessità di evasione. La condizione vissuta pesa. Pesa a Lino, pesa ad Annaluce e la possibilità di un’altra vita rappresenta la prospettiva per evadere. Rispetto a questo desiderio entra in gioco il miracolo che pervade l’intero script. Infatti, non solo il fatto pseudo-magico apre la storia, ma si colloca come evento-cardine che risolve alcuni passaggi narrativi e provocando il plot twist de La Santa Piccola.
LA CICLICITÀ NARRATIVA DE LA SANTA PICCOLA
Il secondo miracolo, infatti, apre un nuovo percorso alla narrazione implementando l’elemento di commedia e sconvolgendo il mondo di privata sofferenza della famiglia. Tutti i problemi riusciranno ad estinguersi: dal pagamento dell’affitto/pizzo alla depressione della madre. Di fronte a questa situazione, si sconvolge anche l’universo di Lino che rimane ferito – data anche la complicata relazione che vive con l’amico Mario. Questa condizione di sofferenza riapre il conflitto con il reale nel film della Brunelli, riportando la narrazione sulle orme iniziali.
IL FILM DELLA BRUNELLI SI CHIUDE CON UNO SCIOGLIMENTO IRONICO
Complessivamente – nonostante l’utilizzo di una grammatica che ci è nota e solo pochi interessanti momenti relativi alla fotografia – il film della Brunelli piace per l’interessante tono che rasenta la dramedy. Seppure sofferenza e tragicità permangano e mantengano sospeso e inquieto il tono della storia, c’è in gioco un’interessante riscrittura cinematografica del tema della complessità delle relazioni e della responsabilità esistenziale, spesso in chiave umoristica. Queste trovano anche un giusto, catartico finale che ironizza con leggerezza anche sul credo popolare.