Freaks Out, ritorno dietro alla macchina da presa del regista e sceneggiatore romano Gabriele Mainetti, era uno di quei film che sembrano destinati a esser rimandati in eterno, nonostante un’attesa spasmodica del pubblico. Mainetti infatti aveva tutti gli occhi addosso dal debutto con Lo Chiamavano Jeeg Robot, un vero caso cinematografico costato 1,7 milioni di Euro (cui vanno aggiunti i costi di promozione) e arrivato a fine corsa con un box office di 5,7 milioni (esclusi diritti televisivi e home video).
LO CHIAMAVANO JEEG ROBOT, UN PRECEDENTE CON CUI IL CONFRONTO È INELUDIBILE
Numeri non impressionanti in senso assoluto, ma assolutamente straordinari per un’industria italiana che è abituata a vivere quasi esclusivamente di foraggiamento istituzionale. I 7 David assegnati dall’Accademia del Cinema Italiano, per quanto non necessariamente sinonimo di qualità, concorrono poi a definire il fenomeno che scaturì da quel felice debutto.
Dare un seguito a quel piccolo cult sarebbe stata la scelta più ovvia, quindi, ma anche la più noiosa. Per il ‘giovane’ cineasta romano (classe 1976), anche fondatore della società di produzione Goon Films, era il momento di alzare ulteriormente la posta, e si sa che certe scommesse sono per natura molto rischiose.
FREAKS OUT E UN CINEMA CHE PENSA PIÙ IN GRANDE DI QUANTO NORMALMENTE NON CONCEDA LA NOSTRA INDUSTRIA
È così che arriviamo Festival di Venezia 2021, in cui il suo secondo film viene finalmente presentato al pubblico nel concorso principale. Sono passati 5 anni – un’eternità – da quell’esordio, ma nel frattempo c’è anche stata una pandemia. Va detto che però 01 Distribution nel 2018 annunciava Freaks Out in uscita nel 2019, e che i sesquipedali ritardi post-produttivi sono ben precedenti a ogni emergenza sanitaria. Il budget di partenza, che già allora superava ogni record nostrano sfondando abbondantemente la soglia dei 12 milioni, nel frattempo è lievitato considerevolmente. Di opere seconde così costose probabilmente il Cinema italiano non ha memoria.
Freaks Out è, non solo nel budget, un film rocambolescamente ambizioso. Mainetti infatti, che qui condivide la paternità del copione con lo stesso Nicola Guaglianone che aveva scritto insieme a Menotti Lo Chiamavano Jeeg Robot, rincara la dose della sua ricetta iniziale. Non solo tornano l’elemento fantastico e quello spettacolare declinati sulla specificità del contesto italiano, ma a complicare il tutto si aggiunge un’ambientazione storica.
LA TRAMA DI FREAKS OUT, IL NUOVO FILM DEL REGISTA DI LO CHIAMAVANO JEEG ROBOT
La storia di Freaks Out, nel solco di un certo cinema americano cui Mainetti è lapalissianamente debitore, è in fin dei conti piuttosto lineare.
Siamo dalle parti di Roma nel 1943. Israel (l’ottimo Giorgio Tirabassi) dirige un piccolo circo in cui lavorano quattro ‘fenomeni da baraccone’ decisamente speciali. Fulvio (un Claudio Santamaria invisibile) è un super-forzuto affetto da ipertricosi, Cencio (un perfetto Pietro Castellitto) è un albino capace di muovere e illuminare gli insetti a suo piacimento, Mario (Giancarlo Martini) è un uomo-calamita affetto da nanismo e Matilde (Aurora Giovinazzo) una ragazzina capace di difendersi creando scariche elettriche.
Questa strana compagnia sarà chiamata suo malgrado a fare i conti con la realtà della guerra quando i bombardamenti tedeschi interromperanno il loro spettacolo e, nel trambusto generale, il loro datore di lavoro sparirà nel nulla. In fuga e confusi, i quattro freak dovranno misurarsi non solo con i militari nazisti ma anche con il grottesco Zirkus Berlin dell’inquietante Frank (il Franz Rogowski di Un Valzer Tra Gli Scaffali e Undine); anche lui un diverso e un dotato, ma con il ‘vizietto’ di voler reclutare una squadra di mostri e di avere un debole per Hitler. Contro ogni aspettativa sarà la giovanissima Matilde a prendere le redini del loro destino.
FREAKS OUT È UN CROWD PLEASER DALL’ATMOSFERA MAGICA E DALLA MALCELATA ‘FURBIZIA’
Come anticipavamo, Freaks Out è un film rocambolesco, sì, perché prima che il Covid-19 condannasse le sale a una lenta agonia l’ambizione di Mainetti è quella di bissare l’enorme successo di Lo Chiamavano Jeeg Robot. Con la differenza che, almeno in termini economici, un investimento produttivo che quasi decuplica il precedente implica comunque una ridefinizione di cosa si intenda per «successo» – anche se i finanziamenti pubblici hanno già coperto la quasi interezza del budget. Altra cosa è ragionare in termini di accoglienza del pubblico e della critica, ovviamente, e lì il regista romano ha il vantaggio di partire da un solido pregiudizio positivo.
Ancora una volta il tandem composto da Gabriele Mainetti e Nicola Guaglianone si avventura in territori ben diversi da quelli della grande tradizione italiana. Col suo mix di avventura bellica e racconto di formazione a tinte fantastiche Freaks Out si preannuncia come un vero e proprio crowd pleaser. Un progetto sicuramente sentito ma che tradisce una certa forzata ruffianeria nella ricerca del consenso, tanto da nascere dalla domanda «e adesso che facciamo di altrettanto fico?» (parole letterali del regista).
Sul versante critico, invece, la situazione è più sfumata: in quel del Lido è interessante notare come la stampa italiana (quella sempre di manica larga con gli inserzionisti pubblicitari, quella che non si prende mai il rischio di contraddire i lettori e anche quella un po’ più libera) abbia uniformemente salutato un capolavoro, mentre la grande critica estera è stata decisamente più severa.
LA SPIEGAZIONE DEL SIGNIFICATO DIETRO LA RETORICA DEI MOSTRI
Senza scomodare l’immenso Tod Browning di Freaks (1932) o l’altrettanto fondamentale Paul Leni de L’Uomo Che Ride (1928), è evidente che quando si sceglie di imperniare un racconto sulla figura del ‘diverso’ le regole del gioco siano quelle di mostrare la bontà nascosta dal mostruoso e, in antitesi, la mostruosità che si annida nel normale. Tim Burton ci ha costruito sopra un’intera carriera, la The Walt Disney Company un’intera pedagogia e anche Guillermo del Toro ne sa qualcosa. Niente di veramente innovativo quindi, e sono decisamente più rari i casi nei quali tale meccanismo diventa ben più complesso, come in Ballata dell’Odio e dell’Amore (2010) di Álex de la Iglesia.
Freaks Out quindi si colloca con una certa prevedibilità proprio nel suddetto filone e, pur senza proporre i perversi salti mortali dell’autore spagnolo che – lui sì – venne premiato a Venezia col Leone d’Argento, per lo schizzo iniziale attinge a piene mani proprio all’immaginario dell’antefatto di Balada Triste de Trompeta.
FREAKS OUT HA UN PROBLEMA NEL RACCONTO DELLA DIVERSITÀ
Nella nostra recensione di Lo Chiamavano Jeeg Robot, anni fa, avevamo ragionato di come quel debutto avesse trasformato in pregi certi limiti che da sempre frenavano le fantasie supereroistiche nostrane. Anche qui quella stessa visione del mondo disillusa, quella familiarità con la sconfitta e quell’atavica povertà rurale da cui è fiorita la nostra identità comune tornano rilevanti. Ancora una volta possibili vincoli creativi diventano frecce nella faretra del narratore. Con una mano registica sapiente e con una qualità produttiva assolutamente inedita in Italia, Freaks Out ci trascina in un mondo ostile ma magico, familiare ma spettacolare.
Se il contesto funziona, sono però purtroppo le maschere che lo popolano a lasciarci più tiepidi. A dispetto dell’unicità che dovrebbe contraddistinguere i suoi peculiari protagonisti, infatti, Freaks Out finisce per tratteggiare in modo piuttosto grossolano proprio le loro caratterizzazioni. Pur volendo spesso spiegare più di quanto sia necessario, fallisce nel rendere quei ‘fenomeni da baraccone’ veramente interessanti e quindi nell’innalzare la posta emotiva al massimo delle possibilità. Nel giocarsi la carta del (più o meno) soprannaturale depotenzia proprio quella diversità che vorrebbe celebrare. A quanto pare non basta essere dei ‘mostri’ costretti a sentirsi a casa in un circo, a essere una famiglia nell’emarginazione: ci vogliono i poteri a rendere più frizzante il tutto, ci vuole «la locura» (cit.), ci vogliono i vetrini colorati per fare contento quel pubblico abituato a sfamarsi di cinecomic.
FREAKS OUT VS LO CHIAMAVANO JEEG ROBOT: DUE DIVERSI MODI DI CONCEPIRE IL PERSONAGGIO FEMMINILE
Freaks Out, a differenza di Lo Chiamavano Jeeg Robot, pur avendo un personaggio femminile decisamente meno interessante riesce maggiormente a venire incontro alle aspettative di un pubblico ormai fortunatamente (iper)sensibilizzato sulla questione di genere. Questa volta infatti non si ricorre al consunto espediente del fridging o ‘donna nel frigo’: non si ammazza cioè il personaggio femminile al solo scopo di aiutare il percorso di crescita dell’eroe maschile.
Non che nel film precedente la morte di Alessia (Ilenia Pastorelli) rappresentasse chissà quale grave atto di maschilismo da parte degli sceneggiatori, sia chiaro: quell’evento aveva comunque una sua utilità nella trama. Un’attenzione aggiuntiva al racconto delle donne nelle dinamiche di un plot, però, soprattutto in questo momento storico è sempre gradita; ancor meglio se non si tratta del cliché della ‘donna forte’ che mena le mani come un berserk. Il #metoo, tra giustissima denuncia e pretestuosa retorica, ha quindi portato letteralmente all’illuminazione per quanto riguarda il ruolo di Matilde nella vicenda di Freaks Out. Il rumoroso neo-puritanesimo di Twitter condannerà comunque un certo ‘bacio rubato’? Staremo a vedere.
MAINETTI: IN TERMINI DI MERCATO È UN ‘MAESTRO’ POP SENZA DISCEPOLI?
Tutte queste sono considerazioni fatte da chi ama il cinema, lo prende estremamente sul serio e quindi vede anche in questo strano ircocervo che è Freaks Out un frammento importante del discorso che la società fa attraverso l’arte. Con questa fantasiosa dramedy imperfetta, follemente ambiziosa ma non così originale, avventurosa e stupefacente, che rievoca anche i fantasmi del nostro passato, Mainetti avrebbe l’ambizione di far fare un salto in avanti al cinema tricolore. In termini produttivi, è ovvio, ma in una certa misura anche creativi. Soprattutto in un contesto che difficilmente sa raccontare quel tipo di storie che portano le persone a pagare il biglietto del cinema.
Con la sua opera prima il regista romano aveva spianato la strada a un lustro di emulatori che quasi mai hanno avuto esiti particolarmente felici, e adesso speriamo che questo nuovo azzardo venga premiato dal pubblico e inviti il mondo produttivo a osare, osare e osare. Anche in terreni a noi poco familiari. Certo, il Coronavirus non facilita questa scommessa, ma se c’è qualcuno che può riportare al cinema – almeno a vedere un film italiano – anche certi nostri connazionali che abitualmente non ci vanno, è probabilmente il Mainetti di Freaks Out.
IL MONDO VISIVO DI FREAKS OUT È FRUTTO DI UN LAVORO DI CESELLO CHE EMOZIONA PIÙ DELLA TRAMA STESSA
La cura maniacale con cui è scolpito ogni sperduto anfratto visivo di questo universo ibrido tra realtà e immaginazione è quasi commovente, e mai come ora è evidente che i nostri creativi, i nostri tecnici e le nostre maestranze sono pronti a rispondere alla chiamata di una settima arte che sappia raccontarsi in modo più accattivante anche al grande pubblico internazionale. Grande, ma non grandissimo; non ancora.
Gabriele Mainetti ormai gira con esperienza, Guaglianone è diventato un nome di riferimento e in generale Freaks Out è ciò di cui avevamo bisogno ora per provare a smuovere un’industria drammaticamente provata dalla pandemia. Poco importa che la profondità della storia sia meno tridimensionale di quanto vorrebbero farci credere, o che la riproposizione di schermi e idee già abbondantemente visti altrove generi un certo senso di déjà vu. Le opere d’autore in senso proprio, qualsiasi cosa questo significhi, si cercano in altri luoghi, e non è nemmeno detto che tutti siano interessati a trovarle – anzi, sappiamo per certo che non è così. Si può essere autori anche in un cinema più vicino a quell’alveo a volte descritto con l’orribile definizione di ‘cinema commerciale’, e in quel campionato Mainetti è un fuoriclasse.
La data d’uscita di Freaks Out è fissata per il 28 ottobre 2021.
IL TRAILER FINALE DI FREAKS OUT
(Luca Ciccioni e Niccolò Coscia)