Titane, secondo film della regista e sceneggiatrice Julia Ducournau che fa seguito al suo debutto al lungometraggio con l’ottimo horror Raw (2016) e alla regia di due episodi della serie AppleTV+ Servant (2021), non è certo un film per tutti. Non tanto per la presenza di scene che potrebbero turbare gli spettatori più sensibili – che pure non mancano – quanto per l’assurdità delle svolte percorse da uno script allegorico che di certo lascerà basiti molti.
TITANE E LA POMPOSA AMBIZIONE DI INCARNARE LA NASCITA DI UN NUOVO CINEMA
*** SEGUONO SPOILER SULLA TRAMA DEL FILM ***
Titane, parabola di un’assassina che rimane incinta di un’automobile e nel suo percorso di cambiamento fisico e mentale saggia i confini della propria identità di genere, è un film concepito con l’intento di scioccare e di incarnare un Cinema iper-contemporaneo e iper-attuale. Questa sorta di favola nera a tinte estreme però risente dei limiti di uno script confuso e meccanico, ben più di quanto potessero consentire gli sfumati confini dalla sua strampalata storia.
Il titanio del titolo – un metallo estremamente resistente a caldo e corrosione ampiamente impiegato negli impianti chirurgici – è qui sinonimo di forza ma anche di modernità: due attributi che la cineasta francese vuole associare alla nuova consapevolezza che caratterizza i movimenti femministi e LGBTQI.
Se il ‘film scioccante’, alla fine, è dimenticabile
Come vedremo più avanti l’apparente coraggio artistico nasconde però una certa furbizia; l’inesperienza della regista è più evidente in questo secondo lavoro che nella sua opera di debutto, e nonostante il film si spinga continuamente nei territori dello shock movie, si attesta comunque su una mediocritas che non ha niente di aureo, rendendolo sorprendentemente dimenticabile.
Distribuito nelle sale italiane da iWonder Pictures nell’ottobre 2021 e vietato ai minori di 18 anni, questo ibrido tra cinema d’avanguardia e cinema di genere è stato premiato con la Palma d’Oro al Festival di Cannes, lasciando ironicamente perplesso anche il nostro Nanni Moretti – che concorreva con il pur decisamente poco riuscito Tre Piani.
QUAL È LA TRAMA DI TITANE?
Alexia (Agathe Rousselle, esordiente arruolata su Instagram), da quando da bambina è stata vittima di un incidente d’auto, vive con una placca di titanio nel cranio e ha sviluppato una strana parafilia per le macchine. Ora, ormai trentenne e psicopatica, la ritroviamo che lavora come ‘pole dancer’ in una convention per appassionati di motori ma, per qualche misteriosa ragione, è celebre come una star. Per altre imperscrutabili ragioni, è anche una serial killer. Ciò ovviamente non le impedisce di trovare il tempo di far sesso con il cambio di una Cadillac e di rimanere incinta della quattroruote (sì, avete letto bene).
«’O famo strano» in chiave intellettualoide
Mentre il suo pancione al titanio inizia a crescere, dopo aver soddisfatto – perché no – i suoi istinti parricidi ai danni di uno sfortunato Bertrand Bonello (regista di Nocturama, qui attore), sfuggirà alla polizia spacciandosi per un ragazzo scomparso da un decennio. Una tagliata ai capelli, un naso rotto, una fasciatura per contenere il seno et voilà: il padre dello scomparso, un capitano dei pompieri in lutto, con il culto per i muscoli e problemi di dipendenza (lo straordinario Vincent Lindon) sarà disposto ad accettare di accoglierla come un figlio e farla diventare parte della sua caserma.
Mentre lo script si lascerà alle spalle senza un perché la parentesi pluriomicida, tra rivelazioni prese con improbabile nonchalance e possibili sfumature incestuose, la prodigiosa gravidanza sboccerà tragicamente in un piccolo ibrido uomo-macchina.
LA SOSPENSIONE DELL’INCREDULITÀ PUÒ VALERE PER L’IMPOSSIBILE MA NON PER IL POSSIBILE
A metterla nero su bianco, la trama di Titane sembra a dir poco ridicola, eppure Julia Ducournau riesce a trasporla su pellicola imbastendo un universo se non sensato quantomeno credibile, prendendosi sul serio e addirittura evitando di rendere risibile la storia – operazione non facile.
Se può andar benissimo la sospensione dell’incredulità che porta ad accettare che la protagonista sia incinta di una macchina, risulta più difficile accettare come i comportamenti umani (che, a prescindere dal contesto grottesco, dovrebbero seguire schermi quantomeno comprensibili) siano invece pilotati dalla mano invisibile della narratrice, in barba a ogni vaga razionalità, logica interna o causalità.
Una sensazione di déjà vu che va da David Cronenberg a Christina Choe
È poi impossibile non vedere come la struttura del film sia sostanzialmente un’accozzaglia imbastita con lo sputo di due o tre storie distinte e sostanzialmente slegate tra loro: un film su una sessualizzazione delle automobili nata da un incidente, un film su un’impostora che si spaccia per un figlio scomparso approfittando della disperazione di un genitore solo e un corto su un’assassina senza moventi noti.
Tutto molto bello, se non fosse che il maestro del body horror David Cronenberg (qui il nostro speciale sul suo Cinema), con il suo Crash ma anche con La Mosca e Brood, o la regista Christina Choe (che ha debuttato col sottovalutato Nancy per poi cimentarsi anche lei con la serialità televisiva) ci hanno già raccontato più o meno le stesse cose. Usare malamente qualche ulteriore influenza dai ben più sofisticati Nicolas Winding Refn (The Neon Demon) o Gaspar Noè (Climax) non salverà il linguaggio privo di un proprio carattere della Ducournau da confronti un po’ troppo ingombranti.
LA SPIEGAZIONE DEL SIGNIFICATO DIETRO UN’ALLEGORIA DA DISCOUNT: IL SENSO DEL FINALE.
A liberarci dalla lettura più superficiale della storia, rimane comunque un solido impianto allegorico, che è il vero cuore di Titane. In tutto questo «famolo strano», lo script firmato da Julia Ducournau, dopo esser dovuto passare – con dubbio successo – per undici diverse bozze e per le mani di ben tre script doctor, ci consegna un messaggio simbolico che vorrebbe esser nascosto tra le pieghe della storia ma è in realtà esplicitato ai limiti del didascalico, gridato al mondo; sbattuto in faccia quasi che la regista avesse paura di non esser capita.
Titane spiegato: i simboli buoni un po’ per tutti
La gravidanza è il cambiamento, la sostituzione d’identità la sessualità fluida, il fuoco è la rabbia, il titanio è un rafforzamento mai indolore, la paternità è l’accettazione del nuovo, la nascita è l’alba di un mondo diverso. Il messaggio sarà pure nobile, ma nella dinamica del raccontare per simboli tutto è ovvio, banale, paradossalmente proprio lì dove te lo aspetteresti.
In questo strano equilibrio in cui coesistono eccentricità e banalità, la cultura dell’accettazione della sessualità fluida e dell’identità cangiante diventa così un processo difficile ma destinato a rafforzarsi di generazione in generazione. Sta a chi era abituato al ‘vecchio mondo’ accettare la morte di quei vecchi equilibri e abbracciare il nuovo, come si farebbe con un ‘figlio’ che si amerà sempre e comunque.
TITANE: JULIA DUCOURNAU BERSERK DELLA LOTTA AL PATRIARCATO
Se con tale spiegazione quasi tutti i pezzi vanno al loro posto, rimangono certo due elementi piuttosto arbitrari: il perché del sesso con la macchina e la ragione dietro gli omicidi commessi dalla protagonista (che narrativamente hanno l’unica funzione esplicita di dare un pretesto per il cambio d’aspetto e conferire all’adottato un’aura di pericolosità).
A venirci in soccorso in tal senso sono le parole della Ducournau in un’intervista a Entertainment Weekly: in francese «macchina» è un sostantivo femminile («voiture»), eppure l’immaginario dei motori è prerogativa quasi maschile, pertanto scegliere un rapporto consensuale (la regista ci tiene a specificarlo, per ridicolo che sembri) tra una donna e una vettura è un modo per eliminare il patriarcato dall’equazione. Ovvio, no?
Sovvertire gli equilibri della violenza
Come se non bastasse, ormai berserk del femminismo di quarta ondata, Julia Durcounau si spinge oltre nel suo delirio misandrico rivendicando in qualche modo il diritto delle donne di essere serial killer – passateci l’iperbole. Intervistata da Deadline, la cineasta francese ha sottolineato come sia inaccettabile che nel dibattito pubblico sui delitti si tenda a dare per scontato che la donna sia la vittima e non la carnefice.
Per carità, siamo tutti d’accordo sul fatto che i femminicidi siano una vergognosa e drammatica piaga sociale, ma forse il fatto che non si abbia abbastanza paura delle donne anziché per le donne è l’ultimo dei problemi in tale ottica. I dati sugli uomini che uccidono per un malato senso di proprietà le donne parlano con tragica chiarezza, purtroppo. Eppure evidentemente, nel 2021, è segno di contemporaneità anche ‘espropriare gli istinti omicidi al patriarcato’, quasi fossero qualcosa di meritorio o legittimo.
IL MERITO DI TRATTARE TEMATICHE IMPORTANTI E ATTUALI PUÒ DIVENTARE IL PRINCIPALE PREGIO DI TITANE?
I maligni potrebbero sostenere che una regista francese, donna, con i piedi ben saldi in un certo misandrismo e che ambisce a fare un film-manifesto sull’empowerment femminile e sulla fluidità di genere (tematiche ovviamente sacrosante) fosse la candidata ideale per rappresentare l’ossequioso approccio di Thierry Fremaux alle più estreme istanze del #MeToo e di quanto ne è seguito. O anche che, al giorno d’oggi, trattare certe questioni sia sì necessario e meritevole, ma anche una mossa scaltra per trovare un buon posto al sole dalla giusta parte della barricata e far proseguire con successo una carriera iniziata abbastanza sottovoce.
In questa sede ci limiteremo a dire che, pur avendo apprezzato moltissimo la Ducournau di Raw, pur sostenendo con forza le battaglie per la libertà sessuale e la parità di genere e pur riconoscendo a Titane il merito di aver toccato un tema estremamente significativo per tante persone fino ad oggi sotto-rappresentate, ricordiamo pellicole ben più riuscite aver primeggiato sulla Croisette.
Spike Lee, la cancel culture e la necessità di tornare ‘dalla parte dei buoni’
Partendo da un approccio serenamente gender-blind, ci sentiamo di ipotizzare – sapendo che non avremo mai conferma o smentita – che un certo pregiudizio positivo potrebbe in effetti aver influenzato le scelte del presidente di giuria di Cannes Spike Lee. Sarebbe altrimenti difficile spiegare perché un film che scimmiotta maldestramente il lavoro di altri registi e registe abbia finito per intestarsi il principale premio di quello che fino a poco tempo fa era il più importante festival cinematografico al mondo.
L’autore di Blackkklansman, dopo esser stato oggetto di una lapidazione mediatica da parte del neo-puritanesimo della stampa e dell’opinione pubblica americane per aver proposto una riflessione strutturata sui rischi della cancel culture e aver ricordato i meriti artistici (che ovviamente nulla hanno a che fare con le colpe private) del suo amico Woody Allen, infatti ha fatto di tutto per rimangiarsi le proprie dichiarazioni e riscoprirsi paladino del nuovo vento che sferza a Hollywood. Come se ricordare la grandezza di film quali Manhattan o Io e Annie coincidesse con un’apologia della molestia sessuale. Oggi, aver caldeggiato un film come Titane – a prescindere dal merito di tale entusiastico supporto – lo fa certamente tornare nelle grazie dei suoi avversatori di ieri.
TITANE, TANTA FUFFA PER UN GRANDE BLUFF
A prescindere da ogni posizione ideologica o da ogni interpretazione allegorica, Titane non risente solo degli evidenti limiti di uno script ambizioso ma mal riuscito, bensì anche di quelli che sono i limiti di una familiarità ancora parzialmente acerba col mezzo. È evidente che la francese abbia talento, ma è altrettanto evidente come sia ancora nel pieno di un percorso di ricerca e auto-scoperta.
Che si tratti della scena grossolana e forzatissima in cui una bambina diretta coi piedi bacia e accarezza una macchina; della arbitraria pretestuosità del ballo di Vincent Lindon che ferma Alexia dalla fuga; o ancora delle facce sconcertate dei pompieri davanti a un ballo omo-sensuale che suscitano nel pubblico reazioni involontariamente comiche in un momento che invece poi si rivela serio; Titane è pieno di problemi nell’imbrigliamento della bestia filmica.
Riconosciamo l’onore delle armi alla gambler Ducournau
Va riconosciuto a Julia Ducournau di non aver giocato sul sicuro col suo secondo lungometraggio, e se la scelta tematica può sicuramente aver deposto a suo favore nella ricerca del consenso, va riconosciuto che le incognite di una pellicola ai limiti del delirio erano così tante da rendere quasi imperscrutabile la sua accoglienza. La Ducournau ha scommesso su se stessa, insomma, e questo può fare molto ben sperare per il futuro del suo percorso artistico.
Ciò nonostante, Titane è un film compiaciuto nella sua plateale ricerca dell’eccentrico, spocchiosetto nel suo sentenziare sul ruolo della settima arte, ruffiano nel volersi a tutti i costi insinuare nello zeitgeist sociale, pressappochista nel proporre una concatenazione di eventi senza alcun collante, e infine poco originale nel mutuare idee altrui spacciandole per pura innovazione.
Oltre la ricerca del facile effetto
Non parliamo di un’opera terribile, sia chiaro, ma argomenti importanti come la fluidità di genere e il ruolo delle donne nella società meritano una trattazione meno erratica e modaiola (e lo stesso dicasi per il podio di Cannes). Tanto per capirci, ci consentiamo un paragone un po’ forzato che ci porta lontani dal genere horror: lo straordinario film di debutto della talentuosa Emerald Fennell, Promising Young Woman, ha colpito per originalità e spietatezza e non si è risparmiato assolutamente nulla in termini di denuncia di un maschilismo spregevole e abusivo, eppure rappresenta un lavoro magari meno estremo ma di gran lunga più registicamente maturo.
Titane è sì interessante, a tratti finanche divertente, ma non è il cinema di domani: è più che altro un grande bluff. Dopo qualche settimana, vi resterà solo la maiuscola interpretazione di un Lindon sempre più magistrale e la curiosità di scoprire i prossimi passi dello sgomitante ma ancora acerbo talento di Julia Ducournau.