«Intenzionalmente non sottotitolato»: già dai suoi primi fotogrammi Days di Tsai Ming-liang, regista Leone d’Oro nel 1994 per Vive L’Amour, promette il primato dell’immagine rispetto alla parola. Una promessa che il cineasta malese (naturalizzato taiwanese) manterrà in pieno, considerando che in oltre due ore di girato è presente solo un piccolissimo dialogo, tra l’altro decisamente marginale ai fini della storia. La pellicola, premiata al 70. Festival di Berlino con il Teddy Award per la miglior opera a tema LGBTQI e designata Film della Critica dal SNCCI, viene distribuita nelle sale italiane dal 14 ottobre 2021 da Double Line in collaborazione con Lo Scrittoio.
DAYS: TSAI MING-LIANG E LA POETICA DELLA SOLITUDINE
Al centro della pellicola due uomini, Kang e Non, che vivono a Bangkok; il primo in una casa lussuosa che denota una condizione agiata, l’altro invece in un piccolo appartamento dove per vivere produce piatti artigianali che vende perlopiù ai turisti. Il film segue la loro solitudine, il loro incontro, il loro rapporto affettivo all’interno dell’incomunicabilità più grande della città e, per estensione, dell’intera umanità.
Il regista riprende i temi cari alla sua cinematografia, esprimendo come nei precedenti lavori la sostanziale solitudine degli esseri umani, interrotta di tanto in tanto da incontri effimeri e illusori che quando finiscono riportano ognuno nella condizione di isolamento, semmai approfondendo ancora di più il solco che li distanzia dal resto del mondo.
IL RUMORE DEL VUOTO CHE CI SEPARA
Con Days Tsai Ming-liang spinge lo spettatore fino agli estremi confini del cinema dove il prodotto finale, sebbene studiato e coscientemente realizzato, diventa una ricerca esasperata di un lavoro per sottrazione. L’essenziale è infatti la cifra che caratterizza tutto il film. Scene lunghissime girate con telecamera fissa, dove la parola dei personaggi viene sostituita dai suoni e dai rumori di fondo provenienti dagli ambienti dove i due protagonisti agiscono o interagiscono: la pioggia, l’acqua che scende dalla doccia, una pentola che cade, un colpo di tosse.
Di una colonna sonora non c’è traccia, se non il suono di un piccolo carillon che Kang regala a Non e che diventa l’unico legame che resta tra i due dopo un incontro fatto di solitudini, di sguardi e di corpi che si toccano con desiderio ma allo stesso tempo con pudicizia.
DAYS È UN’OPERA PER PALATI FINI E CINEFILI BEN MOTIVATI
In Days il regista si addentra in territori non del tutto sconosciuti (specialmente dal cinema orientale) e lo fa in maniera personale ma allo stesso tempo pretendendo molto anche dallo spettatore: pazienza per poter apprezzare i tempi sommamente dilatati, attenzione per non perdere il filo conduttore del film, interpretazione del significato delle immagini al servizio della storia ma spesso di non facile lettura, curiosità nel cogliere piccoli e gradi particolari degli spazi e dei suoni. E costanza, perché arrivare fino in fondo sarà un traguardo tanto gratificante quanto impegnativo.
Hanong Houngheuangsy e Lee Kang-Sheng, i due attori protagonisti, sono perfettamente a loro agio nei personaggi che interpretano sia nel loro ‘peregrinare’ dentro le rispettive solitudini, sia quando l’incontro diventa prima intellettuale e poi fisico. Alla fine del lungometraggio resta il retrogusto di un grande pessimismo per la visione di un mondo senza colori, in cui gli uomini sono istintivamente alla ricerca di affetti ma senza vederne né contorni né sfumature. Una visione che neanche la macchina da presa riesce a mediare. Ed è forse proprio la sensazione di trovarsi difronte contemporaneamente al reale e alla finzione che fanno di Days un lavoro a suo modo poetico anche se decisamente “spericolato”.