Esiste una parola in lingua Maori chiamata porangi: letteralmente significa essere “mentalmente indisposto”. Ma nella sua costruzione etimologica por significa notte e angi significa giorno. Metaforicamente porangi significa dunque “percorrere quella linea tra la notte e il giorno.” In fin dei conti l’opera prima del neozelandese di origine Maori James Ashcroft (già presentata con successo alla Midnight Section dell’ultimo Sundance e arrivata poi nelle Stanze di Rol del Torino Film Festival) è proprio questo: un viaggio nella frontiera fra giorno e notte o – ancora meglio – fra luce e oscurità.
Una famiglia in ostaggio in Coming Home in the Dark
La luce è quella di una famiglia borghese neozelandese formata dall’insegnante Alan Hoaganraad (Erik Thompson), da sua moglie Jill (Miriama McDowell) e dai figliastri Maika (Billy Paratene) e Jordan (Frankie Paratene). I quattro decidono di passare una giornata fuori porta facendo un’escursione verso un remoto tratto di costa. L’oscurità arriva quando questa famiglia spensierata incontra inaspettatamente una coppia di vagabondi. Uno si fa chiamare “Mandrake” (Daniel Gilles) perché è “bravo a far sparire le cose”, l’altro, Tubs (Matthias Luafutu), è robusto e taciturno e fa qualunque cosa gli ordini Mandrake.
Il brutto incontro si trasforma in una rapina e la rapina si trasforma ancora in qualcos’altro. Presto Hoaganraad si renderà conto di trovarsi di fronte a un vero e proprio incubo e dovrà fare i conti non solo con due personaggi senza scrupoli, ma anche con alcune vicende del proprio passato che pensava di aver dimenticato per sempre.
Coming Home in the Dark: fra Funny Games e Don Siegel
Nonostante James Ashcroft arrivi al suo esordio al lungometraggio direttamente dal teatro (ha diretto per anni la compagnia Māori Taki Rua Productions) ha un modo straordinario di guardare e attraversare lo spazio del set cinematografico. I primi trenta minuti di Coming Home in the dark sono di una bellezza straordinaria, sia per la capacità di far parlare un paesaggio asettico e cupo (quasi un western notturno), sia per l’uso intelligente e inquietante che fa Ashcroft del fuori campo. Anche le esplosioni di violenza – brutale e spietata – avvengono improvvisamente quasi al confine dallo schermo: ad essere straziante non è il singolo gesto o quello che vediamo realmente, ma l’intera atmosfera che pervade la storia.
Se apparentemente il film ci riporta ai survival come Wolf Creek (ma anche in certa misura alle tensioni gratuite di Funny Games) i riferimenti sono da cercare invece in un certo cinema di genere degli anni ‘70, su tutti i film di Don Siegel. A contribuire alla riuscita del tutto c’è un impressionante Daniel Gilles che interpreta perfettamente la malvagità psicotica e astuta di Mandrake, ma anche Erik Thompson (qualcuno lo ricorderà in Xena – Principessa guerriera ed Hercules) e Miriama McDowell costituiscono due tasselli emotivi fondamentali per rendere la narrazione realistica e credibile.
Coming Home in the Dark, un thriller psicologico che si fa indagine sociale
Nella seconda parte Coming Home in the Dark diventa invece una sorta di road trip ambientato per buona parte in un abitacolo di un fuoristrada. Ai dialoghi tra gli ostaggi e loro rapitori si alternano immagini ipnotiche della guida notturna: una sorta di continua esplorazione dell’oscurità dentro una notte che non finisce mai. In questo secondo atto Ashcroft si concentra nel disseminare indizi di una storia che si fa molto più complessa di come l’avevamo intesa all’inizio, con il passato di Hoaggie che torna a galla e che lo connette in modo inevitabile con i suoi aguzzini.
Qui il film perde quella sua empatia iniziale e ha l’ambizione, forse non riuscita, di elevarsi a indagine sociologica sulla genesi della violenza nella società e sul passato colonialista in Nuova Zelanda (non a caso il film è contaminato dall’etnia Maori: lo è Ashcroft, ma lo è anche il personaggio di Tubs). Eppure anche quando il discorso si fa “politico”, la bravura del regista diventa quella di non imboccare la strada del j’accuse o di restituirci la morale degli “abusi che generano abusi”. Fino alla fine tutto resta ambiguo e irrisolto, viaggiando su un filo del rasoio sopra cui si muovono e si alimentano a vicenda vittime e carnefici. Eccolo qui, il porangi tanto amato dal regista: non c’è bianco o nero, ma siamo dentro a un infinito spazio grigio.
Una certezza però c’è: non c’è rimedio – e mai ci sarà – ai peccati del passato e nessuna grazia riparatrice potrà mai impedire loro di tornare e minacciare la presunta pace del presente. Coming Home in the Dark è un viaggio che ci scaraventa nelle pieghe più buie dell’animo umano e nella brutalità delle sue colpe. E come esordio sul grande schermo questo di Ashcroft è uno dei biglietti da visita più taglienti e convincenti degli ultimi anni.