Nella prima esilarante scena di El Planeta vediamo la protagonista Leonor (Amalia Ulman) contrattare con un uomo conosciuto online (interpretato dal regista spagnolo Nacho Vigalondo) i modi e i tempi per prestazioni sessuali. Subito dopo conosciamo la madre Maria (Ale Ulman) che “congela” nel freezer di casa dei fogliettini con dei nomi scritti per “proteggersi dai nemici”, mentre la figlia si lamenta della mancanza di cibo. Quando dalla radio una voce annuncia l’imminente arrivo in città di Martin Scorsese, Leonor si ritira in un angolo della casa per farsi dei selfie.
Sono passati solo 15 minuti e questo film ha già toccato il sesso, la prostituzione, l’immagine del corpo, il narcisismo, il cinema, la povertà e la stregoneria. El Planeta – opera prima scritta e diretta dalla stessa Ulman presentata in Concorso al Torino Film Festival – sorprende proprio per questa sua capacità di condensare, fra il serio e il faceto, tutta una serie di aspetti legati alla contemporaneità che sfumano in un unico piccolo mondo domestico.
La sopravvivenza sociale di una madre e di sua figlia in El Planeta
Questo mondo domestico è quello di Leonor, costretta a tornare da Londra a Gijón dopo la morte del padre per vivere insieme all’eccentrica madre Maria. Le due abitano in un appartamento che non possono più pagare, senza riscaldamento ed elettricità. Mentre Leo prova a dare un senso alla sua carriera (mai davvero decollata) di designer di moda, la madre è diventata una taccheggiatrice: va da un negozio all’altro indossando una bella pelliccia e si infila nelle tasche beni di lusso di cui in realtà non ha alcun bisogno.
Un quotidiano che sopravvive sulla bugie, sui piccoli furti, sui pranzi a scrocco presso il ristorante El Planeta (da cui la pellicola prende il titolo) e soprattutto sull’illusione. Il tutto per sfuggire a una realtà che prima o poi busserà alla porta.
El Planeta, un bianco e nero che guarda al cinema di Jarmusch e di July
Amalia Ulman (che è nata proprio a Gijón ma che adesso vive negli States) arriva dal mondo dell’arte digitale e una delle sue opere più famose, Excellences & Perfections, era una performance di quattro mesi sul suo account Instagram in cui fabbricava attraverso dei selfie alcuni personaggi di fantasia. Non è un’operazione molto diversa da quella che vediamo in El Planeta, che all’ultimo Sundance ha ricevuto elogi un po’ da tutta la critica internazionale. Così come le sue opere digitali, anche questo film è una narrazione visiva disinvolta e leggera: una macchina fissa con lunghe sequenze in bianco e nero che aderisce tanto alla Novelle Vague quanto ad un certo cinema indipendente americano, quello datato di Jim Jarmusch ma anche quello più recente di Greta Gerwig o di Miranda July (molti sono i paralleli con Kajillionaire).
Ma non è mero citazionismo, perché – nonostante il budget ridottissimo – è impossibile non notare una certa padronanza visiva in quello che stiamo vedendo. Dopotutto il direttore della fotografia Carlos Rigo Bellver ha girato tutto con una camera Blackmagic 4K con i colori sono stati dimenticati di proposito, lasciando a Ulman la possibilità di concentrarsi sul controllo delle inquadrature e soprattutto sulla forza dei dialoghi. La scelta ha funzionato, perché questo approccio minimalista conferisce alla città di Gijón uno spirito sospeso e atemporale, come se stessimo guardando una riedizione di Manhattan di Woody Allen. La colonna sonora caricaturale e volutamente ironica del musicista underground newyorkese DJ Chicken (Burke Battelle) sostiene questa idea di un mondo (o meglio, un pianeta) a sé, alieno eppure familiare.
El Planeta, un affresco sociale di due generazioni
Nonostante questa atmosfera dell’assurdo e il sottile filo comico che lega le scene di El Planeta, in realtà l’esordio di Ulmann punta ad elaborare un affresco sociale di due generazioni (madre e figlia) alle prese con una crisi economica devastante. La Gijón che vediamo non ha niente della Spagna colorata e calorosa che abbiamo in testa: è una città grigia, fredda, piovosa, con negozi e magazzini chiusi per bancarotta dopo il collasso economico post-pandemico.
Questa miseria tocca anche Leonor e Maria: nella loro vita precedente, prima della morte del patriarca, si erano abituate a un certo stile di vita confortevole, uno stile di vita sempre più difficile da mantenere. Se Leonor usa i filtri di Instagram per raccontare che va tutto bene, anche Maria cerca di mantenere le apparenze, indossando una pelliccia a tutta lunghezza e portando una borsa Burberry per rubare oggetti di lusso nei centri commerciali, ricordando un po’ le principesse indigenti e deliranti, da Blanche DuBois a Michelle Pfeiffer in French Exit. Qui è notevolmente brava Ale Ulman (se ancora non si è capito, vera madre di Amelia): nonostante la totale mancanza di esperienza attoriale il suo personaggio è uno di quelli che buca lo schermo e lascia dietro a sé una scia di romanticismo decadente che restituisce a tutto il film quell’aura nostalgica e retrò.
La carta vincente di El Planeta è insomma quella di saper raccontare con freschezza ed umorismo un mondo angosciato e incapace di essere onesto con se stesso, che fantastica di vite mai vissute e sempre desiderate. Anche nelle scene finali, quando il film ci mostra un galà per il premio Principessa delle Asturie con ospite Martin Scorsese (un vero evento che ha avuto luogo a Gijón nel 2018), capiamo che l’immaginario cinematografico per Amelia Ulmann è l’ennesimo filtro per potenziare questa dissimulazione, per renderla ancora più totale. Dopotutto, se di fronte a una vita che non lascia molte scelte non si può che affondare, allora tanto vale farlo con stile.