La Città Incantata (Spirited Away), dopo il debutto record di incassi in Giappone nel luglio 2001, il dicembre dello stesso anno iniziava la sua distribuzione internazionale – anche se in Italia sarebbe arrivato solo due anni dopo. Fu subito evidente a tutti come il lungometraggio animato, prodotto dallo Studio Ghibli e firmato da Hayao Miyazaki, non fosse un anime qualsiasi, ma un capitolo fondamentale della filmografia del maestro dell’animazione giapponese, carico di un significato e di una profondità che ne fanno ancora oggi un cult senza tempo.
Tratto dal romanzo Il meraviglioso paese oltre la nebbia di Sachiko Kashiwaba (successivamente titolato La città incantata al di là delle nebbie), ottenne l’Oscar al Miglior Film d’Animazione nel 2003. Un record: questa ispirata storia che vede alternarsi sullo schermo una bambina sperduta, genitori trasformati in maiali e spiriti senza volto fu infatti il primo anime a ricevere il prestigioso premio dall’Academy. Il coronamento di un palmarès prestigioso che che conta anche l’Orso d’Oro al Festival di Berlino, conferito nel 2002 in ex-aequo con Bloody Sunday di Paul Greengrass.
LA TRAMA DE LA CITTÀ INCANTATA: UNA BAMBINA TENTA DI SALVARE I PROPRI GENITORI-MAIALI IN UNA CITTÁ DEGLI SPIRITI
Chihiro è una bambina di 10 anni che insieme ai suoi genitori giunge in una strana città abbandonata. Quando la madre e il padre iniziano a ingozzarsi, mangiando del cibo che compare misteriosamente dal nulla, si trasformano in maiali. Chihiro, così, entra in una città popolata da spiriti con l’intento di salvare i genitori dalle grinfie della strega Yubaba e grazie all’aiuto del giovane Haku.
La Alice di Miyazaki: come l’inusuale amicizia con una bambina di 10 anni ispirò La Città Incantata
La Città Incantata (Spirited Away) nasce da un’amicizia decisamente inusuale. Come Lewis Carroll per il suo Le Avventure di Alice nel Paese delle Meraviglie si lasciò ispirare dalla decenne Alice Liddell, Miyazaki plasmò l’opera sulla figlia di dieci anni di Seji Okuda, produttore associato e suo caro amico. La bambina accompagnava ogni estate in padre in visita al regista, e fu proprio lei che l’animatore prese a ‘modello’ quando decise di realizzare un’opera che parlasse alle bambine di quella fascia d’età.
MIYAZAKI E LE FIGURE FEMMINILI: UNA SENSIBILITÀ CHE VIENE DA LONTANO
La sensibilità dell’autore nipponico verso la scelta di protagoniste femminili, che in questo caso si riverbera ovviamente anche nel materiale d’origine, lo aveva accompagnato sin dalle prime fasi della formazione artistica, fortemente influenzata da La Leggenda del Serpente Bianco (1958) di Taiji Yabushita. Anche il lavoro di Miyazaki nella celebre serie animata del 1974 Heidi, per la quale si occupò di layout, fondali e sceneggiatura, ebbe sicuramente un impatto sulla formazione del suo immaginario.
Il legame con l’Italia di Hayao Miyazaki
In fuga da un Giappone ancora preda di una profonda chiusura conservatrice ma al contempo alle prese con importanti fermenti interni, Miyazaki, armato della logica del pluralismo e dell’etnocentrismo critico, cercò molte esperienze all’estero, spostandosi in Italia, Svizzera e Argentina.
Proprio al nostro paese lo lega il ruolo di supervisore e regista (dei soli primi 6 episodi) per la serie animata Il Fiuto di Sherlock Holmes, coprodotta da RAI e Tokyo Movie Shinsha. Anche lì il suo particolare culto del femminino si sustanzia nella figura di Mrs. Hudson, capace di adombrare lo zoomorfo protagonista.
UN REGISTA DALLA PARTE DELLE DONNE CHE NON CERCA IL POLITICAMENTE CORRETTO
Fu così che, già prima del suo rientro nella terra natia, si formò la sua poetica. Una visione del mondo che mette radici nella nostalgia, nell’infanzia negata e nella maternità infrante, e che prende forma attorno al paradigma dell’eroina forte ma anche capace di rinunce, che ritroveremo spesso nella sua filmografia. Un tributo vero al ruolo della donna, ben lontano alle convenienze del politicamente corretto che decenni dopo avrebbero portato l’intero showbiz a riciclare costantemente lo stereotipo spesso bidimensionale della ‘donna forte’.
Tale paradigma, nel quale la celebrazione della rinuncia è da ricollegare più alla culto nipponico dell’abnegazione che a uno svilimento del ruolo attivo della donna, riecheggia anche nel vissuto di Miyazaki: sua moglie, anch’ella animatrice conosciuta ai tempi della Toei, fece importanti rinunce quando arrivò il secondo figlio della coppia, Gorō (regista di Earwig e la Strega). Un’idea di femminilità che oggi cozza con una visione più moderna, ma che nulla toglie al profondo rispetto con il quale il regista l’ha celebrata in tutta la sua opera, perfezionandola costantemente.
LA CITTÀ INCANTATA: MIYAZAKI, IL DIGITALE, I TAGLI E L’ANIMA DELLA STORIA
La Città Incantata (Spirited Away) non si sottrae certo a tale tradizione e, anzi, quando nel 2000 iniziano i lavori per il film Miyazaki è già un autore di culto celebrato anche per la sua predilezione verso figure femminili tridimensionali ed ispiranti. Finanziato con un budget di 1,9 miliardi di yen (16 milioni di euro), il 10% dei quali garantito dalla The Walt Disney Company in cambio di un contratto di prelazione per il territorio statunitense, il film si scontra da subito con due scelte importanti: quella sulla tecnica da utilizzare e quella sulla durata.
Miyazaki infatti non rigetta il ricorso alla computer grafica nel flusso di lavoro, ma ne vuole ridurre l’impatto sul film – la qual cosa significa rendere più lungo e complesso il processo di animazione. Al contempo, la durata monstre dello script (equivalente a tre ore di metraggio) impone numerosi tagli. D’altronde, se il pubblico ideale era costituito da bambini di 10 anni, era impossibile pretendere di tenerli incollati alla poltrona tanto a lungo.
Il cuore della storia, però, rimane estremamente fedele all’idea iniziale: i giovanissimi spettatori sono chiamati a identificarsi con una protagonista che attinge da una forza innata. Chihiro è un modello di eroina volitiva e allo stesso tempo amorevole, piccola e immensa, gracile ma forte.
IL VERO TITOLO DE LA CITTÁ INCANTATA NON È LA CITTÁ INCANTATA
Il film di Miyazaki, che ha trovato ampio respiro internazionale dal 2001 al 2004 nella distribuzione (su questo torneremo a breve) ha subito diverse variazioni nella traduzione. Queste, infatti, sono state riadattate al pubblico, spesso togliendo, ad esempio, riferimenti troppo espliciti all’abuso di minori – per Miyazaki fondamentale per condurre una sopita critica sociale. Si, perché La Città Incantata, a dispetto di trama e titolo, condensa in sé la leggerezza della fiaba, ma anche taciti e nascosti rimandi a temi ben più forti, tra i quali anche la sparizione dei minori.
Il titolo internazionale ricalca maggiormente il riferimento originariamente alla cultura giapponese. Spirited Away è un’espressione idiomatica che esprime una sparizione improvvisa, inspiegabile, quasi come se la scomparsa fosse frutto di eventi soprannaturali. Il titolo originale del film, infatti, si traduce letteralmente con La sparizione di Sen e Chihiro.
Lo “spiriting away“ ricalca la parola giapponese “kamikakushi”, traducibile con “nascosto dai kami”. Il concetto di kami rievoca le divinità giapponesi: infatti, quando qualcuno scompare all’improvviso, in Giappone, si usa dire che è “sparito per opera degli spiriti” (kamikakushi). Questo rende ben più comprensibile le intenzioni di Miyazaki, nonché la relazione fra il titolo originale e la narrazione filmica.
MIYAZAKI CONTRO LA PEDOFILIA E LA STORIA DELL’IMPIANTO TERMALE
Da quell’impianto termale che fa da sfondo La Città Incantata, Miyazaki è affascinato. Custodisce in sé misticismo e nostalgia (le due macro-tematiche che sottendono l’opera del regista), ma anche oscuri segreti. Quando Chihiro e i suoi genitori entrano nella città, inizialmente disabitata, percorrono un lungo tunnel nel buio. Questa oscurità è preludio della denuncia del regista. Quelle terme che frequenta la protagonista, infatti, sono terribilmente simili ai bagni del periodo Edo, dove gli uomini ottenevano “cortesie” sessuali dalle giovani lavoratrici.
Nel film, nessuna donna si cura negli impianti termali, ma vi lavora sotto la direzione della terribile strega Yubaba. La femminilità è qui impiegata, rende servizio. A Chihiro il compito di sovvertire il sistema, di non cedere alle tentazioni di un denaro offerto per depravati favori.
Caso emblematico è il personaggio “senza volto” che offre del denaro e chi accetta viene da lui fagocitato. Scambio che alletta tutti ma non Chihiro che, nella visione idillica della bambina miyazakiana, non conosce il male, il valore del denaro e non si fa corrompere. Anzi, si prenderà cura di quel mostro apparentemente senza cuore, invertendo l’ordine della narrazione, capovolgendo il senso del bene e del male.
LA CITTÁ INCANTATA: IL FILM CHE USCÍ IN SALA PER 4 ANNI DI FILA
Dunque i temi sono ben strutturati, il lavoro sui disegni eccellente ma se vi state chiedendo perché La Città Incantata, pur essendo uscito nel 2001, abbia ricevuto Orso d’Oro e Oscar rispettivamente nel 2002 e nel 2003, la domanda è legittima. La distribuzione internazionale prese avvio dopo che il film prodotto dallo Studio Ghibli iniziò a mostrare i primi buoni numeri al botteghino giapponese, collocandosi fra i film più visti tra la popolazione nipponica dopo Titanic.
L’arco della distribuzione copre circa un ventennio. Dal 2001, data di un’uscita in Giappone, fino al 2004 in Turchia e poi in Cina nel 2019. In Italia il film arriva nelle sale nel 2003. Nel 2010 la versione sottotitolata è presentata al festival del cinema di Roma con un titolo più fedele all’originale: La sparizione di Chihiro e Sen. L’ultimo doppiaggio è del 2014, con il titolo utilizzato nella versione che oggi conosciamo: La Città Incantata.
LO STUDIO GHIBLI: UNA CITTÀ INCANTATA IN CUI MIYAZAKI È VLADIMIR PUTIN
La casa di produzione nipponica gode ora di un forte riconoscimento internazionale. In una delle interviste condotte a Miyazaki, quando il cineasta ha parlato dello Studio , il riferimento è andato immediatamente a La Città Incantata. E non è un caso che la casa di produzione sia stata spesso tacciato come un sistema di formazione pseudo-totalitario, paragonato al Cremlino da uno dei suoi animatori (con Miyazaki come Putin e Suzuki a capi del KGB).
Come nelle terme de La Città Incantata, anche la casa di produzione presenta una struttura verticistica e dai tempi rigorosamente studiati e ritmati. Dalle ore continuative di lavoro alla strutturazione degli spazi, anche la stessa architettura risponde alle specifiche esigenze che capitalizzano la formazione sui temi e il lavoro degli animatori. Questo in una dimensione architettonica che è spazio vitale del regista de La città incantata, nonché opera concettuale.
Lo stesso Miyazaki non fatica a nascondere i fatti parlando della casa di produzione ma invertendo i ruoli: «Io mi identifico con Kamaji (nel film un uomo “aracno-morfo” che lavora senza sosta) mentre Yubaba è il signore Suzuki, il presidente della Ghibli. Il funzionamento e l’organizzazione del bagno termale sono in effetti molto simili a quella della nostra società. Chihiro potrebbe essere considerata una giovane disegnatrice che è venuta a trovarci. Quando arriva, si imbatte in Yubaba che urla e impartisce ordini a tutti. Nel frattempo, Kamaji è costretto a lavorare moltissimo per obbedire agli ordini di Yubaba. Ha talmente tanto lavoro che non gli bastano più le braccia e le gambe per finirlo. Per quanto riguarda Chihiro, deve rendersi utile se non vuole che Yubaba la faccia sparire per sempre, vale a dire la licenzi».
IL VENTO DESERTICO E LO STUDIO GHIBLI
Lo Studio Ghibli nasce nel 1985 come progetto di Miyazaki proprio per creare una società di produzione che risponda alle esigenze del “creatore” – e con lui ci sono i soci Toshio Suzuki, Isao Takahata, Yasuyoshi Tokuma e Gorō Miyazaki. Insieme ai ritmi insostenibili, lo Studio Ghibli corona il sogno di Miyazaki di potersi sganciare dalle case di produzione che ne avevano condizionato il lavoro, così da poter liberamente creare temi, personaggi, trame. E poi c’è anche un vento desertico in tutta questa storia, che ispira Miyazaki e il nome della società.
Dove passa Miyazaki si alza il vento
Il nome che dà origine alla casa di produzione, in effetti, è una parola alternativa per descrivere lo scirocco, il vento che proviene da Sahara. E il vento è un elemento ricorrente nei film del cineasta giapponese. Si ripresenta continuamente, fino a chiudere (temporaneamente) la sua carriera con un richiamo diretto nel lungometraggio del 2013 Si alza il vento, che, tra l’altro, propone una citazione di Paul Valéry.
L’ANIMAZIONE DIVENTA ARTE: IL MUSEO GHIBLI
Nel 2001, a Mitaka, un sobborgo a ovest di Tokyo è inaugurato il Museo Ghibli, estensione dell’omonimo Studio e spazio concettuale ricco di riferimenti ai film di Miyazaki (che di auto-citazionismo ne sa qualcosa). Ma il museo non è solo questo. È un concentrato puro che combina realtà e immaginazione, in cui l’una sfuma nell’altra concretizzando la fantasia.
Al Museo Ghibli si può visitare la casa delle due protagoniste de Il mio vicino Totoro – icona della casa di produzione – e se ne possono spulciare i particolari. Un progetto di grandi aspirazioni che si apre con un biglietto per i visitatori che è un frame in 35 mm e si chiude con il grande progetto del Ghibli Park. Ma non facciamoci ingannare, il Ghibli Park non è il Disney World giapponese.
DISNEY O GHIBLI? QUESTO È IL DILEMMA
Il parco a tema ideato da Miyazaki è pensato secondo un’ articolazione in cinque aree tematiche ( per questo non si può non ipotizzare l’influenza del parco disneyano). Le aree sono: La Collina della Giovinezza (Il castello errante di Howl), il Villaggio di Mononoke (La Principessa Mononoke), Il Grande Magazzino Ghibli ( La Città Incantata), La Foresta Dondoko (Il mio vicino Totoro) e la Valle delle Streghe (Kiki-Consegne a domicilio).
Il progetto prevede l’utilizzo di 200 ettari a Moricoro Park e l’inaugurazione è prevista per il 2022, partendo con la costruzione delle zone dedicate a Il castello errante di Howl e La città incantata. Non sarà mero intrattenimento, Miyazaki è rigoroso su questo. Lui non è Walter Elias Disney: l’obiettivo del Ghibli Park è proporre esperienze, in cui ognuno possa creare la propria storia. Nell’area del Grande Magazzino si può camminare in una strada che è come quella de La città incantata. Ci saranno ristoranti, certamente, ma soprattutto spazi dedicati a mostre, sale video, teatri. Un progetto ben lontano da quello di Walt Disney: uno scomodo parallelismo da cui Miyazaki ha dato ampia prova di sapersi sganciare.
JOHN LASSETER, HAYAO MIYAZAKI E QUELLA LAMPADINA IN COMUNE
Ma la relazione con Disney e Pixar non è così complicata come potrebbe sembrare. John Lasseter, prima di lasciare la direzione della Pixar, aveva affermato che nel corso di una “crisi creativa”, ci si riuniva a guardare qualche spezzone di Miyazaki per ritrovare l’ispirazione. In realtà, Lasseter, insieme a Tarantino, Kurosawa e altri è solo uno dei tanti nomi che ha manifestato apprezzamento per il lavoro del maestro dell’animazione giapponese.
Di fatto, anche Miyazaki non sottostima il lavoro Pixar. Se in Toy Story 3 scorgiamo chiaramente il personaggio di Totoro fra i giocattoli che prendono vita, anche Miyazaki ne La Città Incantata presenta i propri omaggi alla casa di produzione americana. Si tratta di un lampioncino animato che compare nella seconda metà del film e il cui saltellare rievoca la lampada/mascotte del logo Pixar.
Uno scambio di citazioni che dura nel tempo, se si pensa al recente Luca dove i rimandi sono diversi (ve ne abbiamo parlato qui). Infatti, in Luca è in gioco una rievocazione di Miyazaki e alle sue citazioni sull’Italia che pervadono l’opera: da Porco Rosso e la critica al fascismo, al Caproni costruttore di aerei che ispira la vita del giovane protagonista di Si alza il vento.
MIYAZAKI E I SUOI FILM: UN CERCHIO TEMATICO
Come lo scirocco che si presenta in ricorrenza, l’opera di Miyazaki è un circuito inter-tematico, in cui il vento stesso torna trascinando con sé i grandi temi che, proprio in La Città Incantata, vengono condensati e, allo stesso tempo, resi con leggerezza, ironia e senza intenti strettamente didascalici.
Miyazaki, però, non ha peli sulla lingua. Se una storia deve raccontarla, lo fa bene e non si priva di inserire nel testo filmico elementi forti (si pensi ai due gendarmi che importunano la giovane protagonista de Il castello errante di Howl). C’è in qualche modo un presagio continuo, un’ombra che si cela dietro la quiescenza dell’animazione. Miyazaki scrive, dirige, disegna, concepisce film per bambini. Lo fa ma senza risparmiare quella brutalità necessaria al percorso di crescita, senza velarla ma incarnandola nei suoi disegni.
Non si fa scrupoli di parlare di genitori-maiali che verranno messi al macello. Non ha difficoltà a mostrare le madri moribonde (qui elemento fortemente autobiografico), la sofferenza, l’ombra, la nostalgia. Ed è proprio qui che l’animatore giapponese è più vicino alla tendenza disneyana di Saving Mr. Banks, all’incombenza della realtà, più che all’idillio dell’animazione classica.
ECOLOGIA E TERRORE NE LA CITTÀ INCANTATA
Ma in acque ben più profonde naviga Miyazaki. Dall’ecologia alla responsabilità etica, la pletora di temi e così ampia che si farebbe fatica a coglierli sullo sfondo di una storia d’amore impossibile tra Chihiro e Haku (come sarà anche quella di Arrietty). Il sé che muta forma e che si sdoppia, la capitalizzazione del lavoro e lo sfruttamento. Temi sociali, temi etici, temi storici e temi universali sono tenuti insieme da una stessa struttura narrativa.
La scena in cui un gigantesco mostro liqueforme è epurato da una serie di oggetti che lo ingombrano e che ha involontariamente fagocitato, è un richiamo all’ambientalismo miyazakiano. Nello specifico, la scena rievoca un episodio biografico in cui Miyazaki, aiutando a ripulire un fiume, ne estrasse una bicicletta (così succede in una sequenza de La Città Incantata).
Un intreccio tematico che torna in molti lavori di Miyazaki, producendo una strana combinazione stilistica tra organico e inorganico. Nei film di Miyazaki vediamo insetti che ronzano come aerei (Nausicaä della valle del vento), ma anche giganti di ferro (Laputa) che hanno un’anatomia antropomorfa. Questa combinazione fra natura e artificio, in cui l’una sconfina nell’altra diventa una proposta di eco-sostenibilità ma anche una denuncia sociale.
LA GUERRA E I CACCIA “ZERO”: MIYAZAKI TRA VITA E OPERA
Miyazaki, non da ultimo, riesce a immergerci in uno spiritualismo di confine, un misticismo imbevuto di malinconia che ritorna e, a volte, soffia forte risollevando tumulti psichici, forze inconsce, paure profonde, sensi di colpa e necessità di riscatto. E torna ancora il vento. Un fenomeno naturale che si innesta nell’opera dell’autore sia per i motivi biografici, ma anche per scopi critici e sociali (come sostiene Valeria Arnaldi nel suo libro su Miyazaki Il mondo incantato). Due ambiti che, fra l’altro, si intrecciano nelle immagini belliche di cui è cosparsa l’opera dell’animatore.
Miyazaki viene al mondo tra gli aerei e la guerra. La data di nascita è infatti il 1941 (pieno conflitto mondiale) e il padre si arricchisce grazie all’industria bellica, nello specifico proprio con la produzione di componenti aerei tra cui quelli dei Caccia “Zero”. Gli aerei, grande passione dell’autore, si intrecciano con il senso di colpa e la morte. Il regista lo sa e continuamente tenta di espiantare e metabolizzare una colpa ereditaria, dando voce al pacifismo e all’ambientalismo nelle sue opere e facendolo sempre in forma diversa. Per questo è lecito chiedersi se tornerà ancora.
MIYAZAKI HA AVUTO UNA RELAZIONE COMPLICATA CON UN BRUCO
Nel 2013 Miyazaki è stato abbastanza chiaro. Allora aveva 73 anni, aveva vissuto poco la famiglia dedicandosi al lavoro. Considerando il tempo impiegato per lavorare meticolosamente su ogni opera, la produzione di un altro film avrebbe richiesto 6-8 anni. Questo lo avrebbe trascinato fino alla veneranda età di 80 anni. Ancora lavoro, ancora rinunce. Per questo, dopo Si alza il vento che non lascia al pubblico lo stesso sapore de La città incantata o de Il castello errante di Howl, il regista giapponese decide di mettere giù la matita.
Poi arriva il socio e amico di una vita, Suzuki. Propone a Miyazaki un corto esclusivo per il Museo Ghibli, Il bruco Boro. Il cineasta giapponese si risolleva di morale, è forse pronto a farne un lungometraggio ma abbandona subito l’idea. Quel bruco, con cui Suzuki sperava di rivitalizzare il suo amico, non ebbe successo. Eppure, Miyazaki recupera le forze e la volontà di continuare; riprende vita.
IL RITORNO DI MIYAZAKI E IL RESOCONTO DI UNA VITA
Miyazaki decide di tornare. Non si arrende e vuole rendere ancora omaggio al cinema di animazione giapponese e, ovviamente, al cinema in generale. È un’opera complessa quella che si proietta all’orizzonte. Tratto dal romanzo di Genzaburō Yoshino, il film, dal titolo traducibile con “Come vivi?” (How do you live?) procede a ritmi più lenti del solito (un minuto di animazione al mese).
Il maestro Miyazaki è al culmine della sua arte e per questo decide di concedersi tempo. Un testamento che forse, lui dice, potrebbe non finire con le sue mani. Un’eredità morale da lasciare al nipote. Un canovaccio di storie in una sola storia, un’opera destinata ai bambini per insegnare loro a crescere e, forse, anche per chi è già cresciuto e capire come abbiamo deciso di diventare adulti. Miyazaki forse ci permetterà di farlo con il giusto senso di retrospezione, con pazienza e sicuramente con dolce malinconia.