“Domani, domani e domani, avanza a poco a poco, giorno dopo giorno, verso l’ultima sillaba del copione…”. Così recita uno dei monologhi più conosciuti del Macbeth di William Shakespeare. Chissà se qualche anno fa, Joel Coen avrebbe mai pensato che nel suo “domani” si sarebbe trovato a lavorare nell’adattamento di una delle più popolari tragedie shakespeariane di sempre e soprattutto – per la prima volta nella sua carriera – che sarebbe stato costretto a farlo da solo, senza più al fianco il fratello Ethan che nel frattempo dopo La Ballata di Buster Scruggs si è preso una lunga pausa dal cinema per dedicarsi ad altri progetti.
Prodotto da A24 e rilasciato in streaming su Apple TV+ dopo un’uscita limitata in alcune sale statunitensi ed europee, che gli permetterà eventualmente di concorrere agli Oscar, il The Tragedy of Macbeth di Joel Coen (questo il titolo originale) però è tutt’altro che un film fuori posto o depotenziato, anzi: è un’opera impetuosa e magnetica che restituisce al testo shakespeariano una linfa vitale nuova e incredibilmente attuale.
I tempi delle loro straordinarie commedie (che come vi abbiamo spiegato in questo speciale hanno definito il loro stile) sono lontani, così come le fredde lande dolci-amare di Fargo (qui la nostra recensione), ma questa nuova pellicola, se mai ce ne fosse il bisogno, conferma che il cinema coeniano è capace di attraversare splendidamente ogni confine di genere possibile per arrivare là dove non avremmo mai pensato potesse arrivare.
MACBETH DI JOEL COEN: SU APPLE TV+ UN FILM SU UNA SANGUINOSA SCALATA AL POTERE
Come già fatto in altri adattamenti quali Non È un Paese per Vecchi o Il Grinta, Joel Coen modifica pochissimo la narrazione di partenza per adattarla al grande schermo. La storia, conosciutissima, è quella del nobile scozzese Macbeth (Denzel Washington), di ritorno da una battaglia con il suo compagno d’armi Banquo (Bertie Carvel). I due incontrano per la strada delle Streghe (Kathryn Hunter) che rivelano loro una profezia: Macbeth diventerà dapprima signore di Cawdor e poi re, ma anche Banquo avrà un erede diretto che sarà destinato a salire al trono di Scozia.
Informata sulla profezia, Lady Macbeth (Frances McDormand) sobillerà il marito in modo che acceleri i tempi uccidendo l’attuale sovrano, re Duncan (Brendan Gleeson), e facendo cadere la colpa sul figlio del sovrano, il principe Malcolm (Harry Melling). La sete di sangue di Macbeth non si esaurirà però nella sua incoronazione, e il nuovo re ordinerà l’eliminazione anche dell’amico Banqo e del suo giovane primogenito (Lucas Barker), vera minaccia alla sua conservazione del potere.
Da qui in poi un circolo vizioso di follia e morte finirà per minare la salute mentale di Macbeth sempre più preda di paranoie e allucinazioni, mentre la destabilizzazione politica dell’intera nazione scozzese lo costringerà a fare i conti con le conseguenze delle sue azioni criminali e con un destino al quale non potrà più fuggire.
LA SPIEGAZIONE DEL SIGNIFICATO DELL’AMBIENTAZIONE ASTRATTA E ALIENA DEL MACBETH DI JOEL COEN
Per la sua durata estremamente breve rispetto ad altre tragedie scritte dal Bardo, il Macbeth letterario è stato oggetto di numerose riduzioni cinematografiche; eppure tanti cineasti non sono riusciti ad evitare di fare i conti con la criticità principale dell’adattamento di un’opera simile sul grande schermo, cioè la sua ambientazione.
Le opere di Shakespeare sono state scritte per degli spazi “sospesi” che vivono una sorta di simbiosi con i testi che li attraversano. In passato i film che hanno cercato di decodificare gli ambienti shakespeariani attraverso una grammatica visiva puramente ed esclusivamente cinematografica hanno avuto l’effetto collaterale di mostrare quanto il testo teatrale originale sia, in realtà, molto poco cinematografico. Ad esempio uno degli ultimi Macbeth adattati per il cinema, quello di Justin Kurzel, ha finito per privilegiare il realismo delle immagini depotenziando inevitabilmente il significato letterario e poetico del testo.
Operazione invece molto diversa e, pur con i limiti di una piccolissima produzione italiana, molto più interessante e in linea con quanto poi fatto da Coen quella del mediometraggio Macbeth Neo Film Opera di Daniele Campea.
Nel film di Coen un non-luogo ostile diventa a sua volta protagonista al pari di Macbeth
Joel Coen, probabilmente consapevole di questo rischio intrinseco, rivoluziona completamente l’ambientazione della sua versione della tragedia. Con l’aiuto dell’art director di Stefan Dechant (lo stesso di Jurassic Park), ambienta il film in un luogo totalmente astratto, quasi alieno, irriconoscibile sia da un punto di vista geografico (potrebbe essere la Scozia come qualsiasi altro paese del mondo) sia da un punto di vista umano (tanti sono i riferimenti alle architetture dei quadri di Giorgio de Chirico).
Sono spazi assolutamente ostili alla vita, spazi in cui gioia, amore, lealtà e onore non possono assolutamente trovare posto per germogliare. Non troppo dissimili dai panorami desolati e innevati di Fargo che fungevano da incubatrici di una malvagità ridicolizzata, la location di Macbeth è una landa maledetta e distrutta dalla guerra, una terra fertile di paranoia e di giochi di potere che fa presagire una storia di sangue, di vendette e di morte.
MACBETH FONDE IN MODO IPNOTICO E NATURALE L’ESPERIENZA CINEMATOGRAFICA CON QUELLA TEATRALE
Eppure l’aspetto notevolissimo di questo adattamento del Macbeth è che anche se ci troviamo dentro alla curatissima scenografia di un teatro di posa, mai, per un solo momento, percepiamo l’artificiosità di quello che stiamo vedendo. Perché dentro questo spazio spogliato e ripulito da ogni dettaglio e sfumatura del reale, con le sue linee nette, gli spigoli vivi, le pareti nude e i panorami luminosi, Coen fa vivere il suo cinema senza limitarsi necessariamente ad un semplice “teatro filmato”.
Infatti da una parte il regista utilizza movimenti di macchina precisi e rigorosi che scandiscono il susseguirsi delle scene anche attraverso una cura tanto maniacale quanto spettacolare delle dissolvenze; dall’altra la splendida fotografia di Bruno Delbonnel (Il Favoloso Mondo di Amelie) disegna e staglia luci e ombre in un bianco e nero che evoca il magnetismo dell’espressionismo tedesco e il linguaggio di grandi maestri del passato: dalla cura dei volti e dei primi piani di Carl Theodor Dreyer all’intensità bicromatica dell’adattamento shakespeariano di Orson Welles datato 1948.
Superfluo sottolineare come questa straordinaria capacità di ibridare il teatro con il cinema (o il cinema con il teatro) renda al primo impatto Macbeth un’anomalia bellissima e ipnotica, capace di regalare al testo di Shakespeare una nuova terra straniera in cui liberarsi in tutta la sua potenza e nella sua inaspettata modernità.
IL SIGNIFICATO DI UNA SCELTA STRAORDINARIA: DENZEL WASHINGTON E FRANCES MCDORMAND
L’altro aspetto rivoluzionario nell’adattamento di Coen è nella scelta dei protagonisti. I ruoli di Macbeth e della sua dama sono solitamente ricoperti da attori molto giovani (ad esempio Saoirse Ronan e James McArdle li stanno recitando in queste settimane all’Almeida Theatre di Londra) e alla loro brama di potere viene spesso connessa una dimensione più sessuale.
Diversamente, Coen ha diretto sia Washington che McDormand spronandoli ad adottare un approccio più adulto, calcolato e temperato, privo di tensioni romantiche o erotiche. Dopotutto quanto può essere davvero realizzabile la sanguinaria ambizione di una Lady Macbeth giovane e quasi adorabile, come ha fatto Roman Polanski nel suo film del 1971 con Francesca Annis nei panni della protagonista? Al contrario la coppia di questo Macbeth avanti con l’età, consapevole di sé e delle proprie responsabilità da adulti, ci fa percepire i loro diabolici piani come qualcosa di più malvagio, più spietato e perfino più possibile.
L’importanza di due protagonisti adulti e la diversa prospettiva che ciò comporta
Nella loro saggezza asservita al male, McDormand e Washington sono più simili ai guerrieri de Il Trono di Sangue di Akira Kurosawa (trasposizione del Macbeth nel Giappone del XVI secolo) piuttosto che ai maliziosi “cattivi” dell’immaginario seriale più recente (Il Trono di Spade su tutti). Ma oltre che ad alimentare la perfidia della coppia, l’età adulta dei due protagonisti (ma dello stesso Shakespeare che scrisse l’opera da anziano e dello stesso Coen che dirige il film a 67 anni) diminuisce il tempo vitale a loro disposizione e non fa che aumentare anche il terribile peso dell’ineluttabilità che aleggia per tutto il film e che, in ultima istanza, è il vero protagonista non visibile e non raccontato. Dopotutto nessuna saggezza e nessun senso di prudenza possono salvare coloro che sono destinati alla distruzione.
MACBETH E UN SENSO DI SOSPENSIONE CHE RENDE VANO OGNI TENTATIVO DI CONTROLLO
Dunque la sensazione dell’inevitabile fa il paio con quella di essere bloccati in un mondo a metà fra il reale e il surreale, che non comprendiamo appieno e che non possiamo in nessun modo controllare. Ma non è solo questo che rende il Macbeth di Coen una delle versioni più cupe ed inquietanti di sempre. C’è infatti una sorta di orrore cosmico che attraversa tutta la pellicola e che si materializza in particolare nelle figure magiche delle sorelle fatali, tre nel testo teatrale e che Coen riduce in un’unica presenza multiforme, quella interpretata da Kathryn Hunter.
La sua creatura batte le ali, si contorce e gracchia come un corvo mentre profetizza a Macbeth il suo destino e la sua scalata al trono di Scozia. Non è un caso che proprio Hunter sia l’unica attrice di tutto il film che ha già avuto esperienze importanti nel teatro shakespeariano e che durante la lavorazione del film ha presentato a Coen la figura e il lavoro di Edward Gordon Craig, leggendario attore e critico britannico.
L’INFLUENZA DEL LAVORO DI GORDON CRAIG SUL MACBETH DI JOEL COEN
Per Craig, vissuto a cavallo tra ‘800 e ‘900, le opere di Shakespeare erano già allora state inquinate da forzature ”naturalistiche”, finendo per ambientare i suoi testi in stanze reali, in veri castelli o in luoghi comunque riconoscibili e familiari. Al contrario “più ci si avvicina al sogno e alla musica, più siamo vicini a Shakespeare”. Ecco, in fin dei conti quello che fa Coen è proprio questo: prova a potenziare attraverso la macchina del cinema la natura visionaria e musicale del testo shakespeariano, il suo lato oscuro, ambiguo e misterioso.
Dopotutto ciò che rimane nella mente del Macbeth di Joel Coen non sono le singole scene o i singoli monologhi, ma le immagini e i suoni che si insinuano nella tela testuale. La macchia di sangue sulla guancia di Macbeth. I corvi volteggianti. La nebbia da cui emergono i personaggi. L’inquietante noise della colonna sonora di Carter Burwell. Il gocciolamento, il bussare e il martellare. Sono frammenti che restano impressi, come i frammenti di un sogno (o di un incubo) dal quale siamo felici di esserci risvegliati ma in cui desideriamo tornare quasi subito, per scoprire quanta profondità possa ancora nascondere.
Il finale di Macbeth e il film di Joel Coen come omaggio al sogno del cinema
Perché dopotutto Macbeth questo è: un sogno sulla tentazione del potere e sull’ineluttabilità che questo sogno prima o poi finisca, nonostante il suo continuare a perpetuarsi all’infinito, così come ci suggerisce la sequenza finale. Un po’ come il potere del cinema, il potere delle immagini e il potere di un regista nel manipolare il nostro immaginario.
Forse allora questo adattamento è anche e soprattutto un omaggio sia all’infinitezza del cinema, al sogno, sia alla sua illusione, ovvero il risveglio. Di nuovo: “domani, domani e domani, avanza a poco a poco, giorno dopo giorno, verso l’ultima sillaba del copione, e tutti i nostri ieri avranno illuminato a degli sciocchi la polverosa via della morte.” Non importa quanto il potere del cinema sia un’illusione destinata a scomparire: il Macbeth di Joel Coen resterà per sempre un capolavoro che ci ha illuminato.