Guardando il trailer di Pig, opera prima dell’americano Michael Sarnoski, la prima sensazione che abbiamo è di trovarci di fronte all’ennesimo b-movie in cui un folle Nicolas Cage riplasma la propria immagine attraversando senza pudore i codici dei film di genere. Dopotutto l’attore di Long Beach ci ha ormai abituato a una serie di contributi attoriali volutamente disordinati ed esagerati: solo negli ultimi tre anni contiamo Mandy, Il Colore Venuto dallo Spazio, Willy’s Wonderland, Primal, Kill Chain e Running with the Devil; fino a farsi dirigere recentemente da Sion Sono in Prisoners of the Ghostland. Cage insomma è riuscito a rimanere coinvolto in così tanti film border-line da diventare una sorta di meme vivente, un’icona che ha trasfigurato il suo passato da vecchia gloria hollywoodiana in un feticcio immolato nel cinema indipendente a basso budget.
PIG: NICHOLAS CAGE CERCATORE DI TARTUFI E IL SUO MAIALE RAPITO
La stessa storia che ci presenta il film sembra effettivamente un pretesto per imboccare questa strada. Rob (Cage) è infatti un cercatore di tartufi che vive isolato dal mondo civile in una capanna di un bosco imprecisato. Parla poco e si lava ancora meno, ma in compenso cucina moltissimo e l’unico essere vivente con cui condivide il proprio quotidiano da eremita è il suo maiale da tartufi.
Il quadretto è delizioso, finché una notte il suino in questione viene rapito. Su tutte le furie Rob si rivolge ad Amir (Alex Wolff), l’imprenditore che è solito comprargli i tartufi, per farsi portare a Portland e indagare sul rapimento dell’animale. Mentre Rob è alla ricerca del suo animale – incrociando luoghi e personaggi che riportano a galla il suo passato – Amir scoprirà che il burbero anacoreta è stato in realtà un famoso chef stellato, vera e propria leggenda tra i ristoratori di tutto il mondo.
PIG PROPONE UNA NARRAZIONE CONTEMPLATIVA SULLA SOLITUDINE E SUL VALORE DELL’ARTE
Dunque abbiamo tutti gli ingredienti per servire allo spettatore un film a tinte forti pronto a svoltare nell’action puro. Eppure, più che un revenge movie, Pig si rivela lentamente come un percorso spirituale: promette John Wick ma offre qualcosa di più vicino a Into the Wild. Sarnoski divide la storia in diversi capitoli intitolati come nomi di piatti (“Rustic Mushroom Tart” e “Mom’s French Toast and Deconstructed Scallops”) e mostra di avere una padronanza della messa in scena decisamente inusuale per un esordiente.
Alcune atmosfere ricordano i film più intimi di Paul Schrader (Affliction, 1997; First Reformed, 2017) ma anche il ruralismo del Kelly Reichardt di First Cow o della Debra Granik di Leave No Trace (2018). Il valore aggiunto lo mettono però da una parte il bravissimo Pat Scola che vira tutta la fotografia ad un naturalismo iper-pittorico e dall’altra Alexis Grapsas e Philip Klein, che con la loro colonna sonora riescono a trasmettere atmosfere western e perfino noir. Insomma, quando il film prende forma capiamo di trovarci di fronte ad un depistaggio, elegante e potente, che ci fa entrare in una narrazione contemplativa e lirica sulla solitudine, sull’indipendenza dalle leggi del mercato e sul vero valore dell’arte.
IL SIGNIFICATO DI PIG È ANCHE NEL J’ACCUSE ALL’ALTA CUCINA
In particolare Pig si porta dietro un j’accuse feroce e nichilista contro la deriva dell’alta cucina: indaga cioè le dinamiche tossiche dei ristoranti blasonati descrivendo i personaggi repressi che le attraversano, ironizza sullo storytelling gonfiato e ingannevole costruito intorno ai piatti gourmet, denuncia la totale perdita di contatto con la realtà degli Chef stellati.
In una delle scene più memorabili (una delle poche in cui Cage parla quasi a ruota libera) Rob smonta in poche frasi l’alone di prestigio che ostenta un suo ex dipendente, adesso Chef di un ristorante stellato: “i critici non sono reali, i clienti non sono reali. Perché questo non è reale. Tu non sei reale. Ogni giorno ti svegli e ci sarà sempre meno di te nella tua vita”. Ecco, non è un caso che qualcuno in Rob abbia visto un alter-ego del compianto Anthony Bourdain, il “cattivo ragazzo della cucina americana”, che a un certo punto della sua carriera iniziò a raccontare retroscena non proprio piacevoli che si celavano dietro l’ipercompetitività delle cucine stellate (leggersi a proposito Kitchen Confidential) finendo per diventare un grande sostenitore del valore dei cibi tradizionali e contadini ed elogiando, al posto dell’alta cucina occidentale, lo “street food” dei paesi in via di sviluppo.
PIG, ALLA LUCE DEL FINALE, SI RIVELA COME UN MANIFESTO DELL’AUTENTICITÀ
Allo stesso modo Pig è in fondo proprio questo: un manifesto dell’autenticità. L’arte di cucinare per Rob è innanzitutto un rapporto quasi sentimentale fra il commensale e chi sta cucinando per lui; un rito primitivo in cui sapori e gusti curati dallo Chef sono in realtà veicoli sensoriali per far riscoprire memorie, momenti di vita passati, emozioni che si pensava di aver perduto per sempre.
Ma a guardare bene Sarnoski sembra andare oltre al mondo culinario, allargando questa celebrazione della purezza anche nell’arte tout-court, cinema incluso. Dunque è impossibile non notare che il personaggio di Cage fa eco proprio allo stesso Cage. Anche lui, come Rob, ha deciso a un certo punto della propria carriera di disertare le grandi produzioni hollywoodiane e rifugiarsi in un sottobosco indipendente in cui ha riscoperto un nuovo rapporto con la macchina del cinema.
In un’intervista a Variety, Cage ha riconosciuto questo parallelo innegabile: “Sento di essere entrato nella mia natura più selvaggia e di aver abbandonato quella piccola città che è Hollywood. Non so se vorrei tornare indietro. Non so se mi piacerebbe andare a fare un altro film Disney. Sarebbe terrificante”. Insomma, il ritiro Cage dalla cultura mainstream non fa che alimentare il fascino di Pig ed è una chiave di lettura per decifrare la sua interpretazione “a bassa energia”, malinconica e minimale, che gioca tutta la sua espressività sugli sguardi, i gesti e i lunghi silenzi. Fin dall’inizio Cage ci appare una sorta di vulcano che sta per esplodere, ma la novità sta nel fatto che alla fine non esplode ma, anzi, implode, commuove, disarma. Dando vita a una delle più sfumate e intime interpretazioni della sua carriera.
Per realizzazione, idee, atmosfere e temi, Pig è in definitiva uno dei film più genuini e preziosi del 2021 e – come insegna il suo protagonista – è una pellicola che va assaporata con la giusta dose di pazienza, introspezione e volontà di scoprire gusti mai sentiti prima. Una sorta di cinema slow-food che apre nuovi orizzonti, sia per un Nicolas Cage meravigliosamente fuori posto, sia per un esordiente di cui sentiremo parlare molto in futuro. Bon Appétit.