Nel 2016, alla 73. Mostra d’Arte Cinematografica di Venezia, lo stesso giorno in cui veniva presentato Voyage of Time: Il Cammino della Vita di Terrence Malick veniva proiettato anche uno struggente documentario su Nick Cave (One More Time With Feeling di Andrew Dominik), incentrato sul periodo successivo all’improvvisa morte del figlio. Paradossalmente sono proprio le parole del cantautore australiano a descrivere meglio di tante altre l’essenza del poetico ed enciclopedico documentario dell’autore di The Tree of Life.
«I don’t believe in an interventionist God» cantava Cave prima di evocare la sua protezione in quella Into My Arms che è al contempo una preghiera laica, un’ammissione pascaliana di impotenza verso l’universo e una celebrazione dell’amore. Quell’approccio mistico e meccanicista, sognante e disilluso, sembra ritrarre perfettamente l’essenza di questo viaggio nel tempo dell’autore di Ottawa, che è esattamente una carezza sul volto dei meravigliosi e inutili affanni umani dinnanzi alla Natura.
VOYAGE OF TIME: IL DOCUMENTARIO DI TERRENCE MALICK SUL SIGNIFICATO DELL’ESISTENZA
È riduttivo definire Voyage of Time: Il Cammino della Vita un documentario. Perché questa collezione erratica di testimonianze del reale e finzione ‘scientifica’, che Malick confeziona in barba a ogni criterio commerciale, è sostanzialmente una profondissima riflessione sul senso dell’universo, della vita e dell’amore; un ringraziamento a una natura che qui si sostituisce alla tradizionale idea di Dio.
Frutto di ben 40 anni di lavoro, questa novantina di minuti che i comuni spettatori italiani riusciranno a vedere solo sei anni dopo (in sala grazie a Double Line e Lo Scrittorio e in streaming su MUBI) sono l’estensione di quel folle e portentoso intermezzo cosmogonico che il regista inseriva nel bel mezzo di The Tree Of Life per relativizzare i piccoli e grandi drammi delle singole esistenze in relazione all’insondabile vastità dello spazio e del tempo. O meglio, era quello special a essere derivazione di questo progetto che ancora non aveva visto la luce.
Una rapsodia di immagini: dalla nascita dell’universo alle forme di vita che hanno popolato la terra nel corso delle ere, dalle culture umane agli abissi oceanici, dallo spazio profondo al futuro. Il racconto di una sinfonia perfetta, come sottolineano i suoni che aprono la pellicola: quelli di un’orchestra che verifica l’accordatura prima di un concerto.
LA SPIEGAZIONE DI VOYAGE OF TIME STA NELLA NATURA MADRE E MATRIGNA
“Madre, cosa amiamo quando ti amiamo?”. Questa una delle domane che esplicita il film; perfettamente rappresentativa del tono ambizioso della pellicola. Chi non amasse Malick sia avvertito: forse nulla è più ‘malickiano’ di Voyage of Time: Il Cammino della Vita. Mentre sullo schermo veniamo sempre più sopraffatti da un crescendo che alterna scorci di verità a ricostruzioni in computer grafica, la voce fuori campo di Cate Blanchett pronuncia la parola che più ricorrerà nel film, e a cui saranno rivolti i quesiti e i dubbi dell’umana esistenza: “madre“.
Guardando Voyage of Time: Il Cammino della Vita sarà però presto evidente che la maternità cui si rivolge il regista, stavolta, non è quella genitoriale che combatte dentro di noi (ricordate? «Madre. Padre. Voi due siete in lotta dentro di me.»), ma è l’incarnazione di un’idea afideistica e non interventista della divinità. La trinità di Malick (madre, natura e vita) non ha niente a che fare con una prospettiva metafisica e risiede solo e soltanto nel grato senso di stupore dell’uomo verso una natura meravigliosa e disinteressata.
VOYAGE OF TIME DI MALICK, L’OPERA GEMELLA DI TREE OF LIFE ESTENDE IL RACCONTO SU SCALA COSMICA
Nulla è più umano che l’interrogarsi sul tema della sofferenza e della morte, così come nulla è più trascendente del riuscire a guardare all’universo con una prospettiva che travalichi i concetti di inizio e fine e si concentri sull’idea di continuo cambiamento. «Madre, forse siamo tratti in inganno? L’anima è un desiderio? Un sogno? Non conosciamo nulla; ciechi. Vita, ascolta la mia voce», sentiamo dallo schermo.
È una natura in cambiamento quella celebrata da Terrence Malick, il cui linguaggio risente dei limiti tecnici di decenni di lavorazione, alternando riprese naturalistiche tra le più belle mai realizzate, sporadici videotape ‘amatoriali’ dalla qualità molto discutibile (ma cosa ci ricorda il passare del tempo se non una tecnologia obsoleta?), scene recitate di vita preistorica con ominidi inspiegabilmente glabri e dinosauri in CGI non sempre all’altezza (realizzati dal Dan Glass di Matrix con la consulenza del Douglas Trumbull di 2001: Odissea nello Spazio e Incontri Ravvicinati del Terzo Tipo).
Continuamente sospeso sul baratro dell’eccesso, sul confine tra ambizione e pretenziosità, Malick nonostante frasi ad effetto fin troppo enfatiche riesce invece a pervadere il film di un ispirato senso di grazia, inoltre senza essere mai noioso. Merito tutto del voice over che offre la giusta chiave di lettura e si fa carico – assieme alla musica sacra e alle carrellate oniriche – di creare un fortissimo coinvolgimento emotivo.
VOYAGE OF TIME E QUELLE INFLUENZE DA GODFREY REGGIO PER UN FILM DIVERSO COMUNQUE DA OGNI ALTRO
Voyage of Time: Il Cammino della Vita è un film tutt’altro che facile, un prodotto dalla fortissima vocazione artistica e non alla portata di tutti, che a dire il vero risente in modo considerevole dell’influenza di un certo Godfrey Reggio. Tra cefalopodi che comunicano ‘lampeggiando’ con i cromatofori, rappresentazioni della teoria delle superstringhe, buchi neri, riti induisti, biochimica molecolare, alberi frondosi e gli occhi di un bambino, la bellezza del (non) creato è la vera protagonista di questo film.
Le parole pronunciate dalla Blanchett quando recita «Madre, tu non fai nulla, tu non vedi nulla. Ho paura di te, colei che dovrei amare» ci riportano alla mente quelle di Blaise Pascal quando ci ricordava la nostra magnifica impotenza, che tanto si avvicinano alla visione artistica esplicitata da Malick in questo suo documentario. È citandovi quelle che vogliamo chiudere questo pezzo: «L’uomo non è che un giunco, il più fragile di tutta la natura; ma è un giunco pensante. Non occorre che l’universo intero si armi per annientarlo: un vapore, una goccia d’acqua è sufficiente per ucciderlo. Ma quand’anche l’universo lo schiacciasse, l’uomo sarebbe pur sempre più nobile di chi lo uccide, dal momento che egli sa di morire e il vantaggio che l’universo ha su di lui; l’universo non sa nulla. Tutta la nostra dignità sta dunque nel pensiero. È in virtù di esso che dobbiamo elevarci, e non nello spazio e nella durata che non sapremmo riempire. Lavoriamo dunque a ben pensare: ecco il principio della morale».