Pier Paolo Pasolini, a cent’anni dalla nascita, rimane uno dei personaggi più influenti del panorama artistico italiano (e non solo). Poeta, regista, sceneggiatore, scrittore, attore, drammaturgo e pensatore, PPP – come era anche noto – a un secolo dai natali del 5 marzo 1922 viene celebrato in tutto lo stivale con centinaia di mostre, rassegne ed eventi; in particolare in quelli che sono i territori della vita pasoliniana: Roma, Bologna e il Friuli. La sua opera si snoda su un numero così ampio di aree da permettere commemorazioni e omaggi che spaziano tra arte, musica, fotografia, cinema, poesia, letteratura e giornalismo. Ma com’era arrivato Pasolini al cinema?
PIER PAOLO PASOLINI: L’ANNIVERSARIO DEI 100 ANNI DALLA NASCITA DI UN ARTISTA CHE PROVÒ A TROVARE LA SCRITTURA NEL CINEMA
In ogni medium Pier Paolo Pasolini vedeva limiti e insoddisfazioni. Ospite di Settimo Giorno, programma RAI di Enzo Siciliano di inizio anni ’70, l’artista raccontava il suo passaggio dalla scrittura al cinema ponendo enfasi sulla questione tecnica. Dopo aver affrontato tutte le forme letterarie, dalla poesia al giornalismo, vedeva nella cinematografia una variante letteraria. Per poi rendersi conto che «questo non era vero. Il cinema non è una tecnica letteraria ma una vera e propria lingua. (…) Ho pensato quindi in maniera forse un po’ avventurosa, di passare al cinema per abbandonare l’Italiano. Cioè per fare una specie di rinuncia, di rinnego».
Questa dichiarazione di Pasolini nasconde l’essenza dell’approccio con cui PPP ha sempre affrontato l’arte e la vita: un processo fatto di scoperta, invenzione e rinnegamento. Specialmente rispetto al linguaggio cinematografico, se prendiamo i 15 anni di carriera del Pasolini cineasta iniziati con Accattone e chiusi con Salò o le 120 Giornate di Sodoma, troviamo al suo interno tutti e tre questi aspetti: dal rinnegare la lingua italiana alla scoperta dei movimenti di macchina.
A quasi cinquanta dalla morte di Pasolini e a cento dalla nascita, è forse finalmente possibile liberare l’artista dagli aggettivi che lo hanno accompagnato finché era in vita (rivoluzionario, scandaloso, contraddittorio) per mettere al centro del dibattito il ‘metodo’ di Pasolini, il quale altro non è se non un modo straordinario di approcciare la vita e l’arte.
PIER PAOLO PASOLINI DIVENTA REGISTA
Pier Paolo Pasolini esce con Accattone nel 1961, a poco meno di quarant’anni d’età. L’artista ha già pubblicato una decina di libri di poesie (in italiano e in dialetto), un saggio seminale come Passione e Ideologia e due dei suoi romanzi più celebri: Una Vita Violenta e Ragazzi di Vita.
Accanto a lui, sul set, porta Bernardo Bertolucci, figlio dell’amico Attilio e conoscente di Pasolini. A proposito di questa esperienza, scrive Bertolucci: «È così che io seguo la reinvenzione del linguaggio cinematografico di Pier Paolo. Alcuni metri di binario vengono buttati sulla polvere, sembrano caduti per caso, e infatti sarà la prima carrellata della storia del cinema».
Pasolini si avvicina al cinema grazie a quella voglia di ‘protesta’ verso la lingua. Non era un cinefilo (lo stesso Bertolucci ricorda che Pasolini aveva visto «qualche Chaplin e la Giovanna di Dreyer») e non era per nulla legato al mondo della critica cinematografica militante di sinistra (i Cahiers du Cinéma, Godard etc). Quando si trova su un set per la prima volta davanti a lui non ci sono attori professionisti e come aiuto regia ha un aspirante poeta di 21 anni.
PPP, il cinema con gli occhi di un pittore
I riferimenti a cui si ispira Pasolini discendono dai ricordi delle lezioni con Longhi all’università di Bologna, quindi afferiscono al mondo della storia dell’arte e in particolare della pittura. La disposizione degli oggetti e degli umani nello spazio rimanda dunque alla composizione pittorica, a un certo rigore e sopratutto ad una tecnica di regia nella quale i movimenti della macchina da presa sono limitati.
Pasolini re-inventa il linguaggio cinematografico (per parafrasare Bertolucci) perché è un uomo di pittura, di lettere e di poesia. La produzione cinematografica degli anni ’60 di Pasolini è semplicemente incredibile perché in ogni film il linguaggio del regista muta, si adatta al genere, in qualche modo si rinnega.
PASOLINI E L’ABIURA DELLA TRILOGIA DELLA VITA: IL BISOGNO DI RINNEGARSI
Di Pasolini si è sempre parlato in termini di contraddizione ma non a sufficienza in termini di rinnegamento e rinuncia. Questo equivoco è favorito da uno dei più famosi versi della produzione pasoliniana, l’incipit della quarta sezione del poemetto Le Ceneri di Gramsci: «Lo scandalo del contraddirmi, dell’essere con te e contro te; con te nel core, in luce, contro te nelle buie viscere; del mio paterno stato traditore» e dalla famosissima poesia in versi liberi Il PCI ai Giovani, pubblicata nel 1968 su Nuovi Argomenti, nella quale Pasolini ammetteva di non stare con i giovani del Partito Comunista Italiano ma con i poliziotti, in relazione allo scontro a Valle Giulia.
Pier Paolo Pasolini visse un’intera vita nella contraddizione dovuta al suo essere un borghese. E forse ancor più contraddittorio è stato il suo rapporto col cristianesimo, di derivazione vagamente caravaggesca: entrambi credevano in un ‘cristianesimo primitivo’, lontanissimo dalla Chiesa intesa come istituzione ma legato al rapporto dell’uomo con la comunità, la terra, i poveri.
Nel 1975, a pochissimi giorni dalla sua morte, il Corriere della Sera pubblica una lettera di Pasolini (scritta qualche mese prima) e che poi finirà nelle Lettere Luterane, nella quale il regista si scaglia contro la sua Trilogia della Vita di inizio anni ’70 (trittico composto dai film Decameron, Il Fiore delle Mille e Una Notte e I Racconti Di Canterbury).
PIER PAOLO PASOLINI E IL RAPPORTO TRA ARTE E CONTESTO
L’Abiura della Trilogia della Vita è l’avverarsi di una profezia, ovvero la necessità di Pasolini di riconsiderare la sua opera alla luce dei cambiamenti sociali. In questa grande capacità di analisi di se stesso sta l’unicità di PPP, poiché ogni sua opera (letteraria e non) ha senso di esistere in un determinato quadro sociale e quando mutano i costumi, allora deve mutare anche il modo in cui produciamo arte.
Se infatti la Trilogia della Vita sfruttava le nudità e il sesso per raccontare la gioia della liberazione, il piacere puro e inattaccabile (nonché la libertà di esprimersi, una delle tante condizioni necessarie in una società che voglia essere inclusiva), la produzione pasoliniana del 1975 è attraversata da un pessismo e da un nuovo significato di nudo e sesso.
Nei suoi ultimi anni di vita Pasolini riscrive la raccolta friuliana del ’54, Meglio Gioventù (che diventa La Nuova Gioventù), dirige Salò o le 120 Giornate di Sodoma e lavora a Petrolio, un ‘poema’ incompiuto nel quale il racconto del sesso è meccanico, svuotato dal concetto di piacere e liberazione e trasformato invece in una routine necessaria.
In conclusione, Pasolini è stato una complessa industria di produzione; una ‘factory’ – per scomodare Warhol – in un solo uomo. Un artista con una necessità di esprimersi strabordante, mai veramente saziata (quando era sul set, per esempio, Pasolini approfittava delle pause per andare a scrivere i suoi articoli) e capace di diventare estremamente centrale nel dibattito, sia italiano che estero.