Guardando Siccità, il nuovo film di Paolo Virzì, viene da pensare che la forza del suo cinema sia sempre stata quella di saper usare il genere della commedia come filtro dissacrante e intelligente per raccontare la società italiana anche nelle sue dinamiche meno piacevoli. Sulle orme dei suoi due grandi maestri, Mario Monicelli e Dino Risi, il regista livornese ha infatti rappresentato uno degli ultimi baluardi di quella tradizione dolceamara, sapendola rinnovare, attualizzare e portandola talvolta a livelli altissimi, apprezzati in tutto il mondo.
Adesso, cinque anni dopo il suo ultimo film di finzione girato negli Stati Uniti (Ella & John – The Leisure Seeker), Virzì è tornato a raccontare il nostro paese con un’opera presentata fuori concorso all’ultima Mostra del Cinema di Venezia. Lo fa utilizzando sempre la commedia come palpitazione narrativa, ma questa volta scommettendo anche su un contenitore ambizioso e decisamente inusuale per il suo cinema (ma in generale per il cinema italiano): il genere distopico.
LA TRAMA DI SICCITÀ: UN FUTURO APOCALITTICO PER VIRZÌ
Siccità si svolge una Roma apocalittica in cui non piove da tre anni. La mancanza d’acqua stravolge le abitudini della Capitale, costringendo le autorità a chiudere i rubinetti e varare nuove norme per il razionamento delle scorte: al supermercato è vietato acquistare più di una confezione d’acqua, non si possono innaffiare piante e chi decide di lavare l’auto è passibile di arresto.
In questa città infestata di scarafaggi e che muore di sete si muovono diversi personaggi: un avvocato di successo (Vinicio Marconi) sposato con una cinica dottoressa ospedaliera (Claudia Pandolfi); un sonnolento ex autista di auto blu (Valerio Mastandrea), che adesso è un driver in preda ad allucinazioni; una guardia del corpo rozza (Gabriel Montesi) e la sua protetta (Emanuela Fanelli), figlia di un ricco proprietario di un hotel di lusso.
Ci sono poi anche un detenuto di Rebibbia (Silvio Orlando) che evade per sbaglio e vaga in cerca di redenzione; un influencer con un passato da attore di teatro (Tommaso Ragno) che trascura la moglie (Elena Lietti) e deve fare i conti con un figlio ribelle; un ex commerciante in bancarotta (Max Tortora) che scalpita per parlare alla televisione delle sue sventure finanziarie; uno scienziato (Diego Ribon) diventato una star televisiva e che finisce per affascinare una diva del cinema (Monica Bellucci).
Esistenze tra di loro apparentemente diverse e distanti, ma che di fronte alla catastrofe ambientale sono destinate a sfiorarsi, toccarsi per poi infine incrociarsi. Tutto questo proprio mentre sulla città incombe una nuova minaccia: un’epidemia di una malattia sconosciuta che inizia a contagiare gravemente diverse persone.
SICCITÁ DI VIRZÌ È VERAMENTE UN FILM DISTOPICO?
La prima cosa da dire è che, contro tutte le previsioni del caso, il worldbuilding di Siccità con la sua “distopia domestica” sa funzionare in modo sorprendente. La sceneggiatura, scritta a otto mani dallo stesso Virzì, Francesco Piccolo, Paolo Giordano e Francesca Archibugi mantiene una narrazione in equilibrio fra il post-apocalittico e le tensioni del presente, generando una realtà che è sì immaginaria ma anche maledettamente riconoscibile e familiare.
Non è un caso che il soggetto sia stato concepito dagli autori durante il primo lockdown pandemico del 2020. Un racconto quindi contaminato con tutta una serie di ambientazioni (gli ospedali), sociologie (le proteste di piazza) e avvenimenti (il Papa che prega per la pioggia) che fanno il paio con quello che abbiamo realmente vissuto in quel periodo.
Ma Siccità non è solo l’eco di quel mondo, anzi. Ne coglie le sfumature distopiche, ma le proietta su un’altra emergenza, quella climatica, finendo per rendere ancora più attuale tutto l’impianto narrativo. Dopotutto, con un tempismo che ha dell’incredibile, Siccità è uscito nelle sale dopo l’estate più secca degli ultimi 500 anni e contemporaneamente precede quella che sarà una crisi energetica senza eguali nella storia recente, dando un significato del tutto nuovo alla pratica del “razionamento” che pervade tutto il film.
Virzì costruisce insomma il suo dramma futuristico sulle risonanze del passato per poi deformarlo attraverso un’istantanea del presente. Più che un futuro distopico, è un futuro post-distopico.
IL SIGNIFICATO DELLA ROMA DECADENTE DI SICCITÀ
Assieme a questa intuizione di scrittura inedita per il cinema italiano, è la regia di Virzì che “mette a terra” questo immaginario, attraverso un approccio corale e serrato che ricorda quello già rodato splendidamente ne Il Capitale Umano e che fa quasi l’occhiolino al Paul Thomas Anderson di Magnolia (e quindi a sua volta al cinema altmaniano).
Quello di Siccità è infatti a tutti gli effetti un cinema frenetico, un “cinema che corre”, quasi come le blatte che vediamo brulicare sui pavimenti delle case. Dinamismo dunque, tra i pedinamenti stretti dei personaggi, movimenti di macchina brevi e fluidi che tagliano gli spazi e un montaggio straordinario (quello di Jacopo Quadri) che alterna le tante storie raccontate in modo perfetto.
E poi c’è Roma, in tutta la sua decadenza postmoderna. Non quella elegante e sorniona di Sorrentino o di Fellini, ma quella viscerale, zozza e cafona, più aderente alla realtà. Luca Bigazzi la cattura con una luminosità vivida e accecante, con i colori quasi virati al seppia, rendendo la città arida e polverosa; una sorta di deserto urbano. Infine tante belle idee visive, tra tutte quella potentissima del Tevere prosciugato (realizzato in digitale) da cui, insieme alla spazzatura, emerge un grande colosso di epoca romana. Monnezza e arte antica: quale migliore immagine per raccontare l’ambivalenza della Città Eterna?
LA SPIEGAZIONE DI SICCITÀ E DI UN’UMANITÀ ASSETATA
Se la cornice di Siccità è davvero un unicum nella cinematografia dei Virzì, l’affresco che dipinge l’autore livornese ha invece i colori e le forme della tipica commedia agrodolce che ha animato i suoi film precedenti. Il discorso pubblico e universale sulla crisi idrica si ripiega e si riflette nella quotidianità di personaggi in preda a debolezze interiori e ai fantasmi del passato, restituendo un panorama antropologico di un’umanità volutamente debordante e quasi grottesca.
Sono pedine “assetate” che si muovono in modo compulsivo, alla ricerca di acqua come anche di affetti, riconoscimenti e attenzioni. Personaggi privilegiati o sfruttati ma sempre fragilissimi, che fanno fatica ad amare o a dire la verità – agli altri o a loro stessi – e sono incapaci ormai persino di comunicare tra di loro, siano essi coniugi, genitori o amanti.
Nello spaccato sociale arido e desolante di Siccità tutto diventa trasversale, anche la stessa lotta politica. Se in Caterina Va in Città Virzì depotenziava le differenze tra la destra e la sinistra (ricordando il Dino Risi di Una Vita Difficile), qui racconta la fine di quella dicotomia ideologica in nome di una battaglia antisistema, mostrando proteste di piazza di fazioni populiste dai colori rossobruni e che sono un riferimento fin troppo evidente al fronte no-vax e no-greenpass nato in Italia durante la pandemia.
E poi ancora: riflessioni sui meccanismi della comunicazione dei nuovi media (gli influencer), la mitizzazione degli esperti e dei tecnici (lo scienziato che va in tv), la questione delle migrazioni e degli ultimi del mondo (il rifugiato africano che insegna agli italiani come risparmiare acqua).
IL SIGNIFICATO DEL FINALE DI SICCITÀ
In Siccità c‘è spazio anche per una scena biblica, quando il personaggio di Silvio Orlando vagando per il letto asciugato del Tevere si trova di fronte a Giuseppe e Maria con tanto di asinello: una natività post-apocalittica, come se fossimo stati scaraventati dentro un nuovo “anno zero”. Questa accumulazione di storie, temi e maschere ha forse qualche sottotrama più debole e meno convincente, ma il cast è così bravo e centrato (tra tutti una Claudia Pandolfi in una delle sue migliori interpretazioni di sempre) che tutta l’architettura tiene fino alla fine.
Sono proprio negli ultimi minuti che il film sprigiona le sue immagini più struggenti, chiudendo vari cerchi narrativi e scoppiando “dentro al cuore”, tanto per citare la canzone di Mina che riecheggia durante il film. Forse il ritorno alle origini di un mondo amniotico, con l’acqua che ci nutre e ci conforta, non è così lontano se ognuno fa la sua parte; perché di fronte al tragico siamo tutti coinvolti e connessi, nessuno escluso.
Privilegiati o sfruttati, giovani o vecchi, amati o amanti, poco importa: ci si può salvare solo se ci salviamo tutti. Ecco, Virzì sembra dirci che questa umanità (la nostra, qui ed ora) tanto goffa e disperata non va lasciata indietro, anzi, va abbracciata nella sua interezza, con tutti i suoi limiti, le sue meschinità e i suoi sbagli.
Solo in questo modo ci si può rendere conto di credere ancora un pochino alla redenzione di questo mondo malandato e guardare Siccità per quello che è: un inno all’imperfezione, bellissima e tragica, del genere umano.