Babylon è il film più grande, costoso e ambizioso di Damien Chazelle; un’opera che esiste su una scala molto più grande anche di La La Land. Questo per le star protagoniste, su tutti Margot Robbie e Brad Pitt, per la durata monstre di 189 minuti e per tutti i set, i costumi e le comparse che servono per realizzare un kolossal di questa portata. In un periodo di flessione del box office in tutto il mondo, il solo fatto che questo film esista è comunque un segno di vitalità per il cinema, per le sale e per il pubblico.
BABYLON E LA VISIONE DELL’ARTE TIPICA DI DAMIEN CHAZELLE
Eppure in fondo l’ultimo film di Chazelle non è altro che la prosecuzione di un racconto cominciato con Whiplash quasi dieci anni fa. Anche in Babylon troviamo come fulcro quella passione animalesca, viscerale e fisica che porta le persone a cercare il successo. Il processo che porta alla creazione artistica, per Chazelle, è un’esplosione di energia; gli attori e i musicisti che racconta non sono pensatori sedentari e meditativi quanto degli esseri umani con una determinazione e un’ambizione più grande di loro e che, spesso, li porta alla rovina.
L’ambizione gigantesca di Babylon non fa che rendere più nitidi gli straordinari pregi di Chazelle come regista – per come gestisce il ritmo e collega mondi diversi grazie alla musica – e i suoi grandissimi limiti come sceneggiatore e creatore di personaggi. In La La Land il primo aspetto prevaleva, e di gran lunga, sul secondo; nel suo ultimo film, purtroppo, no.
LA TRAMA DI BABYLON, IL FILM SULLE ORIGINI DI HOLLYWOOD CON BRAD PITT E MARGOT ROBBIE
Babylon racconta gli anni in cui Hollywood fu investita dalla sua prima crisi, quella della nascita del sonoro. Il film segue l’ascesa e il crollo di tre personaggi: un divo bellissimo e alcolizzato di nome Jack Conrad (Brad Pitt), l’esuberante starlet in cerca di successo Nellie LaRoy (Margot Robbie) e l’assistente tuttofare di Jack Conrad, Manny Torres (Diego Calva), un immigrato messicano sveglio e pronto a tutto. Il più evidente limite del film di Chazelle è però che nessuno di loro tre risulta minimamente interessante. Mai.
Partiamo dal personaggio interpretato da Diego Calva – che in questo film è decisamente privo di carisma. È quello che ce la fa, l’uomo che viene dal nulla, che ha avuto successo partendo da zero. Il problema però è che Manny non ha un ruolo attivo all’interno della storia, ma è solo un dispositivo che viene azionato quando serve riportare in scena un personaggio, mostrare un luogo – come nella tremenda sequenza con Tobey Maguire, che non vi spoileriamo – o per il finale. Più che un personaggio è uno strumento di storytelling; l’archetipo del ‘nuovo arrivato’ che, come lo spettatore, scopre delle cosa per la prima volta e così serve teoricamente per suscitare immedesimazione, fornire un punto di vista e dare un pretesto al meccanismo narrativo. Non c’è però nessuna eleganza in questo stratagemma e, anzi, l’impressione è quella di osservare un ingranaggio in movimento.
I MACROSCOPICI PROBLEMI DELLO SCRIPT DI BABYLON
Jack e Nellie sono addirittura peggio, in termini di script. Raramente capita di vedere film in cui la buona riuscita di una performance sia così tanto sulle spalle dell’attore e non del copione. Robbie e Pitt ce la mettono tutta, gli va riconosciuto, ma i personaggi cui devono dar vita sono così noiosi da mettere una distanza tra noi e loro: li vediamo solo bere, recitare, sniffare e poi di nuovo sniffare, recitare, bere.
Per tutte le tre ore e passa di Babylon, poi, i tre i protagonisti non fanno altro che proferire banalità sul loro amore per il cinema, su quanto sia la cosa più bella ed emozionante del mondo. Un’esplicitazione narrativa grossolana in cui l’emozione è più detta che costruita. Quei dialoghi decisamente poco ispirati sono lì perché Chazelle non riesce a far emergere il loro amore per l’industria in altro modo.
EPPURE IL CONTESTO DI BABYLON È MAGNETICO
C’è un particolare che rende feroce e splendido il passaggio dal muto al sonoro (passaggio già esplorato in The Artist di Hazanavicius): l’idea che nessuna star del cinema sapesse recitare come gli attori di teatro. Non avevano dizione, intonazione, capacità di scandire bene le parole. Erano cresciuti come divi che si esprimevano con i sorrisi o con un’espressione corrucciata. Ed è quando gioca su questi paradossi che Babylon è veramente un film ispirato; quando tratta dell’industria del cinema e non di personaggi con pochissimi spunti.
La sequenza più bella di tutto il film, infatti, è la ripresa di un set della casa di produzione Kinoscope; un cumulo di scenografie male assortite in mezzo al deserto in cui Nellie, Jack e Manny si trovano a girare cose diverse. Prima del sonoro il cinema era un’industria selvaggia, senza alcun tipo di accorgimenti di sicurezza, piani produttivi, organizzazione. In questa sequenza infatti assistiamo alle riprese di una battaglia nel deserto in cui si usano armi vere, a un momento in un saloon dove gli attori non si limitano a far finta di ubriacarsi e alle difficoltà di Jack che deve girare una scena pur essendosi appena scolato una bottiglia di bourbon in camerino.
BABYLON CERCA DISPERATAMENTE DI ESSERE SEDUCENTE SENZA MAI RIUSCIRCI
Babylon è un’opera di straordinaria forza quando riprende la forma animalesca, sfrenata e selvaggiamente giocosa del cinema, quella che secondo Chazelle era viva e al suo massimo negli anni del muto. E il modo in cui quell’approccio sregolato al film making si estendesse nella vita sul set e fuori da set è un altro degli elementi degni di nota della pellicola, ma non trova personaggi solidi o maschere notevoli su cui reggersi.
Quando Chazelle inquadra le feste con dei campi larghi, lo fa per farci percepire la stravaganza. Le persone non si vestono ma si mascherano, con abiti succinti ed estremamente bizzarri, mentre ai bordi dell’inquadratura si intravedono soggetti nudi che fanno sesso – ma sono sempre un di più, mai il centro della scena. Babylon cerca di restituire delle atmosfere di lussuria e sregolatezza, alla Satyricon di Fellini, senza aver però il gusto necessario a trovare qualcuno fuori dall’ordinario. Le comparse e gli abiti del film di Chazelle sono incredibilmente prevedibili e anonimi proprio come lo sono i personaggi principali.
Solo verso il finale, durante una sequenza ambientata nei bassifondi di Los Angeles, il film mostra finalmente qualcosa di sorprendente, inaspettato e che resta negli occhi. Ma è comunque un singolo momento all’interno di una sequenza dimenticabile e mal girata.
Di film come Babylon comunque ce ne sono – e forse ce ne saranno – sempre di meno. E nonostante la pellicola di Chazelle abbia personaggi mediocri, sia decisamente troppo lunga e finisca in modo coraggioso ma poco coerente con il resto dell’opera, resta un kolossal. Merce sempre più rara, vestigia di un’idea di Cinema purtroppo sempre più lontana.