Empire of Light, nuovo film del regista premio Oscar Sam Mendes, conferma la progressiva discesa artistica di un autore che con il suo folgorante esordio American Beauty aveva promesso di diventare uno dei giù importanti autori del cinema statunitense. A tre anni dal sopravvalutassimo 1917 – un pastiche di virtuosismo senz’anima studiato a tavolino per il successo nella notte degli Oscar – il cineasta britannico ci presenta un lavoro ancora una volta formalmente impeccabile ma che ha molto poco da dire. Difatti, a una particolare cura della fotografia e dei movimenti di macchina, si contrappone uno script estremamente piatto e lacunoso che ne fa un’opera del tutto trascurabile.
Anche stavolta, come nel precedente war drama con cui aveva esordito come sceneggiatore, il regista sceglie di firmare il copione e pare quindi essere proprio questo il problema principale: il Mendes scrittore. La totale incapacità di costruire una storia che coinvolga emotivamente lo spettatore, unita a una manifesta carenza di idee, fa di Empire of Light uno sterile esercizio di stile. Dovrebbe essere un film sul cinema, o meglio su ciò che gravita intorno alla sala cinematografica, ma se è vero che in qualsiasi momento storico sarebbe risultato debole, uscire dopo The Fabelmans di Spielberg e Babylon di Chazelle non aiuta (che pure aveva i suoi notevoli problemi) non aiuta.
DI COSA PARLA EMPIRE OF LIGHT? STORIA DI UNA DONNA DEPRESSA IN UN CINEMA INGLESE
Hillary (Olivia Colman) è una donna di mezza età depressa e infelice, vicedirettrice del cinema Empire, sulla costa settentrionale del Kent, in Inghilterra. Il cinema è diretto da Donald Ellis (Colin Firth) che scarica sulla malinconica donna le proprie frustrazioni sessuali. L’arrivo del nuovo dipendente, Stephen (Michael Ward), restituirà a Hillary un po’ di felicità.
EMPIRE OF LIGHT: LO STRAORDINARIO TALENTO DI OLIVIA COLMAN NON BASTA A SALVARE IL FILM DI MENDES
Come vi anticipavamo Empire of Light è un esercizio di stile sterile. Se non fosse per Olivia Colman (La favorita, 2018; The Crown, 2019-2020; La figlia oscura, 2021), che conferisce spessore alla protagonista, Mendes sarebbe abilmente capace di togliere linfa vitale anche a un personaggio complesso e stratificato.
La Hillary di Olivia Colman diventa incredibilmente tridimensionale, grazie a una caratterizzazione poliedrica che getta lo spettatore in un vorticoso sali-scendi emotivo: dalla felicità alla sofferenza, dalla lucidità alla follia, dall’aggressività alla sottomissione.
EMPIRE OF LIGHT, LE REGOLE DA INFRANGERE E LE BASI DELLA SCENEGGIATURA
Si potrebbe allora pensare che con Empire of Light Mendes imposti una narrazione character-driven. Ma questo dato emerge per contrasto fra il talento della Colman e la totale carenza di una struttura solida nello script. Mendes trascura i principi fondamentali della drammaturgia classica, eccedendo le regole, come se volesse affermare una presunta compiaciuta autorialità. Questo non fa altro che rendere Empire of Light di modesto valore, in cui a peggiorare la situazione sono strutture dialogiche completamente insensate.
Inoltre, Hillary vive la sua storia d’amore con Stephen, ragazzo di colore, nella cornice del conservatorismo tatcheriano in cui si consumano discriminazioni di razza e di genere. Ovviamente non basta questo a risollevare lo script che tende invece a sovraccaricarlo, alimentandone l’insignificanza.
ROGER DEAKINS NON DELUDE MAI
Empire of Light esce parzialmente dal baratro quando la regia sfrutta spazi chiusi per creare intimità e per centrare il focus tematico sulle relazioni di cura. A soccorrere Mendes è la fotografia di Roger Deakins. Tra i più grandi DOP di Hollywood, vincitore di due premi Oscar per Blade Runner 2049 (qui vi abbiamo rivelato i segreti della sua direzione delle fotografia) e per 1917, Deakins riesce nel miracolo, permettendo al disastro di Mendes di guadagnare una candidatura agli Oscar 2023 proprio per la miglior fotografia.
QUALI SONO I TEMI DI EMPIRE OF LIGHT?
In questo amalgama mal riuscito, Empire of Light mette al centro la depressa protagonista come catalizzatore tematico. Non contento della sua scialba sceneggiatura, Mendes dall’alto della sua arte decide anche di optare per una sorta di congestione tematica. Discriminazioni, relazioni che si infrangono, frustrazioni, nevrosi, malattia mentale. Il tutto nella cornice di una mal riuscita dedica al cinema – topos ricorrente nel post-pandemia. Ma, ripetiamo, qui non ritroviamo la grande sensibilità di un maestro come Spielberg.
IN EMPIRE OF LIGHT LA COMBINAZIONE FRA REALE E FINZIONALE
Purtroppo neanche in quella dedica Mendes riesce bene. Abbozza il proprio omaggio utilizzando come principale ambientazione un cinema vintage in cui attua una sorta di inversione. La storia è proiettata non verso lo schermo (la finzione), ma negli anfratti di un cinema vintage mettendo in luce dinamiche reali, a limite dell’autobiografico. Non a caso, per Empire of Light, Mendes si ispira al trascorso psico-patologico di sua madre e proponendo il cinema come terapia. Quest’ultimo, probabilmente, può essere considerato il significato del film che tenta invano di cucire insieme le diverse linee tematiche.
EMPIRE OF LIGHT È UN PASSO FALSO PER MENDES
Nonostante questo delicato aspetto autobiografico, Empire of Light è un film pesante e retorico fino all’inverosimile. Unico antidoto per reggere la pesantezza: Olivia Colman e la fotografia che lavorano in simbiosi per restituire i chiaroscuri di un personaggio sofferto e sofferente. Aspetti che non riescono a controbilanciare un film lento e che palesa l’intenzione inconscia di Mendes di non voler dare alcun contributo significativo al cinema.