Barbie, film del 2023 con Margot Robbie e Ryan Gosling per la regia di Greta Gerwig, segna il debutto in live action sul grande schermo dell’omonima e popolarissima bambola Mattel. Distribuito al cinema sul mercato italiano il 20 luglio 2023 da Warner Bros. (non è ancora nota la data di uscita in streaming), il lungometraggio ha una durata di 1 ora e 54 e vede coinvolto un cast artistico e tecnico di primissimo livello.
Dove l’ho visto? Che film e serie TV hanno fatto gli attori di Barbie
Nel foltissimo cast corale, al fianco dei protagonisti, troviamo attori come Will Ferrell (Anchorman), Kate McKinnon (il reboot di Ghostbusters), America Ferrera (Ugly Betty), Michael Cera (Arrested Development), Simu Liu (Shang-Chi e la Leggenda dei Dieci Anelli), Emma Mackey (Sex Education), Alexandra Shipp (X-Men: Apocalisse), Kingsley Ben-Adir (Secret Invasion), Emerald Fennel (The Crown); ma anche dei cameo di Due Lipa e John Cena e – nell’originale – la voce fuori campo di Helen Mirren (The Queen). Dietro la macchina da presa, poi, molti i vincitori e candidati al Premio Oscar.
LE BUGIE DEL FILM E LE ORIGINI ‘SEGRETE’ DELLA BAMBOLA BARBIE, NATA DA UNA ‘ESCORT’ TEDESCA
La versione ufficiale di Mattel, artatamente rimarcata anche nel film, vuole che la sua celeberrima bambola venne inventata nel 1959 da Ruth Handler, all’epoca dirigente del colosso di giocattoli statunitense – prima di venir licenziata per una frode fiscale che le valse una condanna ai servizi sociali. Quello che però il film non dice è che Barbie nacque come un’imitazione.
La prima ‘vera’ Barbie fu infatti una bambola per adulti prodotta da Greiner & Hausser e venduta nel 1955 in Germania col nome di Bild Lilli; ispirata all’omonimo personaggio di una disinibita ‘escort’ protagonista di vignette sexy sul quotidiano tedesco Bild. Handler, dopo un viaggio in Europa, ne riportò tre esemplari negli USA per farla spudoratamente replicare, ma per questo Mattel fu accusata di plagio e venne coinvolta in una battaglia legale che si concluse con un accordo nel 1964, quando il colosso americano comprò il brevetto legato a Bild Lilli per l’equivalente di soli 216.000$ di oggi.
Nel film ovviamente di tutto questo non c’è traccia e a dare il volto a Handler – che è morta nel 2002 – troviamo la caratterista Rhea Perlman (Mrs. Wormwood in Matilda 6 Mitica).
PERCHÉ LA BARBIE HA AVUTO COSÌ TANTO SUCCESSO?
Barbie – il cui nome è un omaggio alla figlia di Handler, Barbara – è una delle prime fashion doll, e cioè una bambola snodabile che nasce per essere accompagnata a un ampio set di abiti alla moda. Il segreto del suo successo e dei record di vendite senza precedenti fu dovuto principalmente a due grandi novità per l’epoca: da una parte l’idea vincente ma piuttosto controversa di proporre un modello di femminilità sensuale alle bambine e dall’altro quello di un’inusuale strategia di marketing. Barbie fu infatti uno dei primissimi giocattoli ad esser promosso attraverso spot televisivi. Ad oggi Barbie è uno dei giocattoli più venduti nella storia, nonché di gran lunga la bambola più celebre. Mattel è la più importante multinazionale dei giocattoli dopo la Lego.
Barbie, un impero da 36 miliardi e 43 film con una grande crisi nel mezzo
Che prima o poi venisse realizzato un film con attori in carne e ossa su Barbie era inevitabile. La gamma di bambole della Mattel negli anni infatti ha dato vita a un vero impero economico, generando ancor prima della pellicola in questione una mole di affari di 32.6 miliardi di Dollari, tra giocattoli e merchandise (32,2 miliardi), vendite home video (328 milioni) e incassi cinematografici (5,5 milioni).
Un impero che ha vacillato seriamente un decennio fa a causa di un’immagine ormai molto appannata e di una concorrenza agguerrita (le Bratz della MGA e le bambole Disney di Frozen), ma che si è ampiamente risollevato entro pochi anni con l’introduzione di nuove etnie e tipologie di corpo, volto e acconciatura, alle quali più tardi hanno fatto seguito anche modelli più inclusivi della disabilità (ad esempio una versione ipoudente, una con arto protesico e una con sindrome di down) nonché tributi alle grandi figure femminili della storia.
Se la pellicola con Margot Robbie segna il debutto ‘dal vivo’ del personaggio, il grande schermo in realtà ha già ospitato negli anni diversi lungometraggi in CGI o animazione tradizionale. Basti pensare che tra quelli destinati alla release domestica e quelli per la sala, in passato sono stati realizzati ben 42 film animati. Ci sono poi anche romanzi, fumetti e videogiochi, ovviamente. Al cinema Barbie era stata citata innumerevoli volte, ma non era mai arrivata in versione live action.
BARBIE (IL FILM): LA TRAMA
Le Barbie vivono. Parallelamente al mondo reale esiste infatti un’utopia rosa socking di nome Barbie Land, in cui a ogni bambola della nostra realtà corrisponde una Barbie in carne e ossa. Loro, sempre felici e inconsapevoli, si godono un’esistenza perfetta; almeno finché quella che sembrava la più stereotipata del gruppo (Margot Robbie) non semina il panico manifestando dal nulla intrusivi pensieri di morte.
Determinata a ritornare all’innocenza perduta, Barbie affronterà insieme a Ken (Ryan Gosling) un inedito e avventuroso viaggio nel mondo reale alla ricerca della bambina i cui pensieri tristi hanno incrinato la paradisiaca spensieratezza di Barbie Land. Qui incontrerà un’alleata in Gloria (America Ferrera) ma anche un’inaspettata ‘distopia’ fatta di molestie, depressione, insicurezza e maschilismo. Tutto quel che metterà in crisi Barbie galvanizzerà invece Ken.
PERCHÉ BARBIE, UN FILM SU UN GIOCATTOLO PER ‘BAMBINE’, PIACE AI CINEFILI?
Quando Warner Bros. annunciò il film di Barbie, in pochi erano disposti a prendere sul serio la pellicola: d’altronde viviamo in un’epoca in cui la maggior parte dei film che richiamano il pubblico in sala si rifanno pigramente a qualche proprietà pre-esistente, e l’idea di un live action su una bambola essenzialmente per bambine non prometteva certo niente di originale o appetibile per un pubblico trasversale.
Attenti a quei due. I nomi che hanno destato l’attenzione degli appassionati di Cinema.
Quando però sono stati annunciati i talenti coinvolti nell’operazione, le aspettative sono cambiate: Robbie (C’Era Una Volta a… Hollywood, Tonia) e Gosling (Blade Runner 2049, La La Land) sono star con un portato di qualità non indifferente, mentre i nomi della regista e co-sceneggiatrice Greta Gerwig (Lady Bird) e quello del co-sceneggiatore Noah Baumbach (Storia di un Matrimonio) sono associati a lavori di alto livello. I due, che nella vita sono compagni e condividono due figli, sono infatti considerati la coppia d’oro del cinema indie americano.
Il fatto che due autori cresciuti nei circuiti festivalieri indipendenti e abituati a pellicole decisamente disilluse fossero dietro l’adattamento ha sovvertito le attese dei cinefili. Quando poi sono trapelate le prime immagini dal set, con gli attori principali che indossavano delle agghiaccianti tutine color neon e dei rollerblade, Internet è impazzita e l’approccio estremamente ironico e smitizzante del film è risultato chiaro a tutti.
IL FILM DI BARBIE: IL CASO DEI MEME E LA CIA
Che influenzare l’engagement sui social attraverso meme e account fake sia un potente veicolo di propaganda è cosa nota. Non a caso da quando il leak Year Zero di Wikileaks ha reso noto l’utilizzo dei meme come strumento di propaganda da parte della CIA è nato addirittura il concetto di memetic warfare (guerra memetica). Non è dato sapere se la Warner sia ricorsa anche questa volta a profili social fasulli come nel caso della campagna #ReleaseTheSnyderCut per lo sfortunato Justice League (come scoperto nel 2022 da Rolling Stone), ma quel che è certo è che il popolo di Internet non ha faticato a farsi coinvolgere nel buzz per il film di Barbie.
Il potere del web, Oppenheimer e Succession
Non è stata solo la famosa immagine di Robbie e Gosling con i rollerblade a diventare subito virale, ma ci sono almeno tre meme girati prevalentemente su Instagram che hanno contribuito sensibilmente a fare di Barbie uno dei casi cinematografici dell’anno – ancor prima della sua uscita. Parliamo del trend “target audience / real audience” (“pubblico di riferimento / pubblico reale”), che mostrava uomini nerboruti, hipster e intellettuali in fila al botteghino per Barbie; di quello che faceva un parallelismo tra l’ossessiva ripetizione degli «Hi Barbie» del trailer e i caricaturali «Heil Hitler» di JoJo Rabbit, e del più recente hashtag #Barbenheimer, che accompagnato a immagini e video di ogni sorta ironizza sulla sovrapponibilità del pubblico di Barbie con quello di Oppenheimer – l’attesissimo dramma di Christopher Nolan sull’invenzione della bomba atomica.
Hanno poi contribuito anche il successo social riscontrato dalla primissima clip promozionale – la scena di apertura della pellicola, che cita l’incipit di 2001: Odissea nello Spazio di Kubrick – e il selfie generator di Barbie, subito usato per parodie spiazzanti (si pensi a quelle con Ken/Kendall della meravigliosa serie HBO Succession).
Dalla challenge dei Minion su TikTok ai record al botteghino
Con il linguaggio dell’ironia e del rekombinant tipico dei social, è emerso un interesse del pubblico superiore a ogni aspettativa, di quelli capaci di decretare da soli un successo al box office. La mente è andata subito al recente caso di Minions 2, che è diventato il 5° incasso assoluto del 2022 grazie alla challenge TikTok che ha portato gli adolescenti a riprendersi mentre si presentavano al cinema in giacca e cravatta. Non c’è da stupirsi che qui si sia andati molto oltre, poiché con la cifra record di 2.178.000 € di incassi Barbie ha già registrato la miglior apertura al botteghino del 2023 in Italia.
BARBIE: DIETRO LE RISATE UN’INAPPUNTABILE RIFLESSIONE FEMMINISTA
C’erano molti modi di fare un film di Barbie, e il più facile (e meno allettante) sarebbe stato certamente quello di attualizzare alla contemporaneità il brand. Immaginiamo una commedia romantica per un target puramente femminile, che smussasse gli aspetti più kitsch del giocattolo facendo invece leva sui suoi tratti tipici: romanticismo, passione per la moda, spensieratezza. Se poi l’avesse fatto la Disney, sicuramente uno tra i due protagonisti sarebbe stato afroamericano o comunque di etnica non caucasica – vista l’agenda color blind del CEO Bob Iger, che priorizza la rappresentazione sull’aderenza all’immaginario classico.
Il film di Barbie invece, pur celebrando la capacità delle celebri bambole Mattel di suggerire alle bambine una moltitudine di modelli femminili emancipati cui aspirare, non è nulla di tutto questo. Passando per il controverso rapporto dell’impegno femminista con la frivolezza – che viene infine in parte rivendicata come giocoso diritto di piacersi – la pellicola di Gerwig non esita a definire Barbie un giocattolo fascista; un modello inarrivabile destinato a minare l’autostima femminile e a perpetuare stereotipi utili al patriarcato. Al netto della tantissime risate e del world building ludico, sostanzialmente il film è una paternale (perdonate il termine ‘gender biased’) di femminismo militante; tutt’altro che sgradevole e anzi sacrosanta e utilissima anche per quegli spettatori di sesso maschile che ancora fossero ancorati a polverosi modelli machisti (o fascisti, per l’appunto) o alle donne che volessero supinamente accettarli.
COM’È IL FILM? LA RECENSIONE DI BARBIE
Barbie, proprio per questa sua intrinseca profondità, è un film sorprendente e regala molto (ma molto) più di quanto non sarebbe lecito aspettarsi da una pellicola su una bambola stupidotta per bambine. Gerwig e Baumbach infatti riescono a confezionare un’eccellente commedia di impegno sociale, caratterizzata da una forte chiave metanarrativa e da sfumature musical. È così che il lungometraggio finisce per rivelarsi fresco, esilarante, intelligente e con momenti di sincera emozione. Un lavoro ambizioso e dall’alto valore produttivo (tanto che chi scrive scommette fin d’ora almeno agli Oscar per scenografie e costumi) in cui brilla la suddetta chiara matrice femminista.
Barbie è un film per famiglie? Un film (quasi) per tutti che mira agli adulti
La conseguenza di tale lettura è ovviamente che i bambini non sono affatto il pubblico di elezione del film. Si tratta infatti di un’opera che può piacere a tutti ma è destinata prevalentemente a un pubblico adulto; non solo perché cita con disinvoltura organi genitali, depressione, morte e capitalismo ma soprattutto perché dietro quelle tinte confetto lo script nasconde una tridimensionalità rara. Barbie infatti non è tanto un film su Barbie, quanto sul conflitto tra aspettative e realtà e sull’importanza di una pedagogia della giustizia sociale.
NON SOLO FEMMINISMO: LA SPIEGAZIONE DELL’IMPORTANTISSIMO SIMBOLO NASCOSTO DI BARBIE
Gerwig e Baumbach nel costruire l’impianto narrativo di Barbie fanno un lavoro di sorprendente raffinatezza per aggiungere livelli di lettura senza appesantire quella che, di fatto, rimane una commedia esilarante. Ai dialoghi brillanti e ai tantissimi spunti autoironici (come lo spassoso ‘spot’ di Barbie Depressione che si inserisce ex abrupto nella narrazione) i due sceneggiatori aggiungono un parallelismo fondamentale. Parliamo ovviamente di quello tra il giocattolo e l’infanzia.
L’antropologia del gioco, la morte e le mestruazioni
Il grandissimo psicologo svizzero Jean Piaget spiegava nella sua teoria dello sviluppo come sostanzialmente capire la morte segna l’inizio della fine dell’infanzia. Non è quindi un caso che sia proprio l’idea del lutto a incrinare il mondo perfetto di Barbie e a farle intraprendere un viaggio verso la scoperta di sé. Un’idea di morte che viene dall’esterno (quella che Piaget collocava all’incirca dai 7 anni) e che costringe ad affrontare un po’ per volta il mondo reale. Ovviamente è anche significativo che nel film il superamento di Barbie Land passi attraverso una visita ginecologica – chiaro richiamo simbolico al debutto delle mestruazioni.
Dal punto di vista narratologico, l’iniziale chiamata all’avventura vogleriana – che per non gravare troppo l’umore del film ha il volto di un’adulta e non di una bambina – arriva proprio dalla perdita della scintilla di leggerezza tipica dell’infanzia.
Ecco quindi esposta l’allegoria alla base dello script del film. Barbie è la spettatrice bambina che deve affrontare la crescita. Proprio per questo il ruolo del gioco – palestra del mondo, simulacro innocuo del reale – ha l’incredibile potere di mostrare ai più piccoli cosa possano diventare ma anche cosa non debbano aver paura di essere. La riflessione più importante è quella sulle Barbie come giocattolo; sul loro merito di lasciar intravedere le potenzialità di un futuro da astronauta, da mamma, da esploratrice o da impiegata e sulla colpa di inculcare l’insicurezza davanti all’irraggiungibilità di modelli irrealistici di bellezza e perfezione.
KEN DI RYAN GOSLING È L’UOMO-STEREOTIPO MA RUBA LA SCENA
In tutto ciò abbiamo parlato solo delle Barbie, ma anche i Ken nel film hanno un ruolo decisivo. In particolare il Ken di Ryan Gosling, che si mangia la scena a ogni sua apparizione con la sua carismatica adorabile irrilevanza. ‘Friendzonato’ e costantemente relegato ai margini, quando nel mondo reale intravede la possibilità di contare qualcosa decide di importare il patriarcato a Barbie Land. Apparentemente il classico modello della mascolinità fragile che si sublima nella mascolinità tossica – con tutta la generalizzazione misandrica che ciò comporta – ma che, in fin dei conti, non raggiunge mai livelli eccessivamente molesti e che può rientrare con un po’ di sana manipolazione femminile.
Ogni volta che la denuncia del maschilismo diventa troppo irruente, d’altronde, arriva una battutina, una gag o un momento musicale a mitigarla. Gli uomini del film (e spesso non solo del film) d’altronde sono semplici: sono celatamente insicuri, vogliono contare qualcosa, vogliono esser apprezzati (esilaranti gli sketch sul mansplaining), entrano facilmente in competizione ma altrettanto facilmente tornano solidali – soprattutto se serve a difendere rendite di posizione.
Gli uomini sono il male? La solita retorica del maschio cattivo stavolta serve davvero
In Barbie la dinamica tra maschio e femmina è il fulcro di tutto e quindi la rappresentazione queer, a differenza di quella etnica, è ridotta ai minimi termini – nonostante la presenza dell’attrice trans Hari Nef nei panni di una Barbie. Gli individui di sesso maschile infatti sono apparentemente quasi tutti etero (ma a dir poco metrosexual) e quasi tutti con importanti tratti negativi pronti a esplodere, con l’unica eccezione dell’impacciato Allan di Michael Cera, che però ovviamente si salva alla luce della sua suggerita omosessualità.
In qualsiasi altro film una tale generalizzazione sugli uomini, tutti sostanzialmente negativi e tutti in qualche misura ‘nemici’ delle donne, sarebbe risultata qualunquista e indigesta.
Chiaramente non perché non esista una questione di genere che è ancora ben lontana dall’essere risolta, ma perché ormai fortunatamente esistono anche molti uomini che credono nella parità tra i sessi e si battono per essa al fianco delle donne (e legittimamente non amano essere accomunati ai prevaricatori misogini). Però, in un film che tratta della scoperta delle giovani ragazze del proprio ruolo nel mondo, di cos’altro si sarebbe dovuto parlare se non di questo?
IL PATRIARCATO, LA DONNA FRIVOLA E LA DONNA MADRE
Il patriarcato è il vero villain del film, come in un certo senso lo è nella realtà. Un sistema antropologico che fortunatamente inizia a scricchiolare ma che tende a replicarsi nei vari livelli dell’aggregazione sociale – dalla famiglia ai board delle multinazionali – e che spesso è nascosto dietro una facciata di pink washing (ovvero ruoli femminili di facciata; contentini). Un ‘impero del maschio’ da abbattere ma non perché venga sostituito dal suo uguale e opposto, il matriarcato, ma da una modernità fatta di parità delle opportunità e delle condizioni, di mutuo rispetto e di emancipazione dai modelli sociali imposti.
D’altronde non manca una riflessione sulla fragilità sociale anche degli uomini: nel mondo reale Ken, che non ha alcuna istruzione o qualifica, non può ambire a nessuna professione di prestigio né al semplice impiego di bagnino e deve limitarsi a fare “spiaggia” per tutta la vita.
Nell’insieme quindi troviamo un messaggio di auspicabile progressismo e di valorizzazione del contributo femminile alla società, superando proprio l’idea di ‘stupida bambolina’ normalmente associato alle fashion doll Mattel. Ma che vada oltre anche l’idea che per essere donne realizzate si debba per forza essere madri; tipica delle bambole-neonato che hanno preceduto Barbie e che forse perpetuavano un modello ancora più ‘fascista’ rispetto a Barbie stessa.
LA SPIEGAZIONE DEL SIGNIFICATO FINALE: COSA C’È DI PROFONDAMENTE SBAGLIATO NELLE BARBIE?
Quest’idea di Barbie ‘fascista’ non è tanto di chi scrive, quanto della stessa regista del film. Greta Gerwig non ci va leggera: in una scena sorprendente denuncia la Barbie come quintessenza del modello consumistico, dell’oggettificazione sessuale e degli stereotipi di genere. Eppure, a quel personaggio col volto di Margot Robbie che scoppia a piangere ferito da queste accuse, non si può in alcun modo voler male.
Se Ken arriva a ostentare sicurezza di sé per nascondere fragilità, in qualche misura lo fa anche Barbie, che vive di sorrisi a trentadue denti solo finché non capisce che la vita non può essere tutta rose e fiori. In quella femminilità di plastica e in quella perfezione al petrolio c’è qualcosa di profondamente sbagliato, perturbante. E infatti Barbie scopre di essere molto di più di questo.
I DUE OTTIMI FILM DI 20 ANNI FA CHE SONO STATI ‘COPIATI’ DA BARBIE
Questa visione critica della title character e il taglio narrativo scelto per il percorso di formazione rendono evidenti le fonti di ispirazione di Gerwig e Baumbach, entrambe ci circa un ventennio fa.
Per la scoperta del mondo oltre Barbie Land i due difatti pescano a pienissime mani da Vero Come La Finzione (Stranger Than Fiction), eccellente commedia del 2006 spesso sottovalutata e a molti sconosciuta che vede nel cast Will Ferrell, Emma Thompson, Dustin Hoffman e Maggie Gyllenhaal. La pellicola, diretta da Marc Forster (Monster’s Ball), narra le vicende di un uomo che scopre di essere il personaggio di un romanzo e decide di andare a cercare la propria scrittrice quando sente su di sé lo spettro della morte. La somiglianza è evidente.
Per le dinamiche tra i sessi che si sviluppano soprattutto nel secondo atto di Barbie, invece, traspare come gli sceneggiatori si rifacciano non poco a un celebre libro del 1972, La Fabbrica delle Mogli. Scritto di Ira Lewin (già autore di Rosemary’s Baby), in originale s’intitola The Stepford Wives ed è un fanta-thriller satirico che denuncia il desiderio degli uomini di avere a che fare con donne sottomesse. In particolare, vedendo Barbie, il pensiero corre non tanto al primo adattamento cinematografico del 1975 a opera di Bryan Forbes quanto a quello del 2004 di Frank Oz e con Nicole Kidman, intitolato La Donna Perfetta. È proprio lì che le mogli come ‘bambole ideali’, succubi e servizievoli, sembrano in tutto e per tutto delle Barbie.
Il giudizio finale sul film di Barbie
Le suddette forti somiglianze però nulla tolgono al film di Barbie, che si colloca tra i migliori film da vedere nel 2023. Certo, rimane un film sulla bambola Mattel e quindi, pur rivolgendole le stesse critiche per lunghi anni sollevate dalle attiviste per i diritti femminili, finisce per promuoverla proprio come icona femminista. Quel che conta però è quello che rimane allo spettatore fondamentalmente disinteressato al giocattolo in questione, e cioè tematiche importanti come la denuncia di quanto sia infida la perfezione e la dichiarazione di quanto sia fondamentale un’educazione all’uguaglianza e alla diversità sin dalla tenera età. Il tutto tra risate, invenzioni visive e una buona dose di effetto nostalgia. Merito di due grandi film-maker e di un cast indovinatissimo e in splendida forma.