Io Capitano, nuovo film di Matteo Garrone (Dogman, Pinocchio) presentato in concorso al Festival di Venezia 2023, segna il ritorno del regista e sceneggiatore romano al tema dell’immigrazione dall’Africa, che in qualche misura aveva già trattato indirettamente nei suoi primissimi lavori (il corto Silouhette del 1995 e il lungometraggio Terra di Mezzo del 1996). Io Capitano all’80° Mostra Internazionale d’Arte Cinematografica di Venezia è stato premiato con il Leone d’Argento alla miglior regia per Garrone e con il Premio Marcello Mastroianni al miglior giovane attore emergente, conferito al giovane protagonista Seydou Sarr.
IO CAPITANO, KAFKA E LE DUE ANIME DI MATTEO GARRONE
C’è una frase di Franz Kafka che da sola descrive in modo perfetto la sensazione che si prova dopo aver visto il nuovo film di Matteo Garrone: “non esistono fiabe non cruente. Tutte le fiabe provengono dalla profondità del sangue e dell’angoscia.” Io Capitano è sicuramente uno dei punti più rappresentativi nella carriera del pluripremiato cineasta capitolino proprio per questa ragione: riesce a rifondare come nessun altro autore ha fatto prima il racconto del reale attraverso gli immaginari del fantastico ed è capace di mutare l’orrore in fiaba e la realtà nella sua leggenda. Un film che quindi riesce a sposare la vocazione verista e quella favolistica, che spesso si sono alternate disarmonicamente nel percorso dell’autore, e che riesce a risultare significativo non solo per ciò che racconta, ma per come lo fa.
IO CAPITANO DI MATTEO GARRONE È UN FILM SU UNA STORIA VERA?
La storia da cui attinge Matteo Garrone si ispira alle vicende reali di alcuni migranti: su tutte quella di Kouassi Pli Adama Mamadoum che arrivò in Italia quindici anni fa dalla Costa d’Avorio dopo essere stato imprigionato e torturato per 40 mesi in un campo libico, e quella del minorenne Fofana Amara, che aveva portato in salvo centinaia di persone su un’imbarcazione partita dalla Libia e, una volta in Italia, era stato arrestato e condannato come scafista.
La trama di Io Capitano, nuovo film di Matteo Garrone
Io Capitano raccoglie e ibrida queste testimonianze in una storia unica, ambientando la vicenda a Dakar, in Senegal, e seguendo da vicino la vita di due cugini, Seydou (Seydou Sarr) e Moussa (Moustapha Fall), che decidono di intraprendere un viaggio verso la costa nord-africana e quindi imbarcarsi per il continente europeo. A differenza dei luoghi comuni sul tema, i due giovani decidono di partire per l’Europa non per ‘scappare dalla guerra o dalla fame’, ma perché la globalizzazione è arrivata anche da loro e sono travolti dall’ambizione di vivere in un posto migliore, in cui sperano potranno diventare famosi producendo canzoni rap: un sogno non troppo dissimile da quello di tanti giovanissimi occidentali.
Si fa presto a dire ‘scafista’
Contro il volere della madre (Seydous Mutter) e con tutte le ingenuità del caso, Seydou percorrerà insieme al cugino un lungo e faticoso viaggio dal Senegal verso le coste nordafricane, passando dal Mali, dal Niger e dai terribili campi di prigionia libici in cui sarà venduto come muratore. Sarà proprio lavorando che il ragazzo otterrà la libertà e la possibilità di imbarcarsi verso l’Italia, ma solo insieme ad altre decine di migranti e su un barcone di cui lui dovrà essere, contro la sua stessa volontà, lo scafista. Ovvero, il capitano.
IO CAPITANO E LA NECESSITÀ DI UNO SGUARDO INTERNO ALLA VICENDA
Questo impianto narrativo nella sua semplice linearità di un road movie contemporaneo è totalmente narrato dalla parte di chi intraprende il viaggio, non dalla parte di chi lo guarda da lontano. Garrone fa parlare i suoi personaggi in wolof (lingua parlata in Senegal) e in francese, li fa muovere in una Dakar dove convivono culture urbane e folklore, colora il tutto con le sonorità delle percussioni senegalesi e canzoni rappate – alcune intonate dallo stesso Seydou Sarr. L’intento insomma è chiarissimo e rimanda all’idea che, per raccontare le storie come quella di Seydou e Moussa, bisogna innanzitutto rifondare il linguaggio con cui il cinema le racconta, immergendosi e compromettendosi con un punto di vista totalmente intrinseco a chi le vive in prima persona.
L’Europa come meta, non come prospettiva totalizzante
Se dunque il cinema italiano aveva già affrontato in un passato anche recente il tema delle migrazioni (Terraferma di Crialese, Fuocoammare di Rosi, Mediterranea di Carpignano) Garrone è il primo che lo fa ribaltando lo sguardo, quasi restituendo la storia alla sua origine e ai suoi codici narrativi. Non è un caso che il senegalese Ousmane Sembène, considerato tra i più grandi autori e cineasti della cultura africana e regista della prima storica produzione cinematografica del continente (La nera di…, 1966) una volta disse: «L’Europa non è il mio centro. Perché essere un girasole e rivolgersi verso il sole? Io stesso sono il sole». Allo stesso modo Garrone ristabilisce in quale direzione guardare, rifugge da un certo eurocentrismo che ha penalizzato tante opere sullo stesso tema e rinuncia alla retorica e al pietismo che spesso inquinano la prospettiva occidentale.
IO CAPITANO E L’IMPORTANZA DI RICORRERE ALL’EPICA E ALLA MAGIA
Questo approccio del cinema aderente al contesto che racconta non deve però trarre in inganno: non ci troviamo di fronte a un’operazione semplicemente neorealista nella sua accezione più “militante” del termine, ma piuttosto alla prosecuzione di quel “(neo)realismo magico” che Garrone ha sviluppato negli anni, approfondendo il rapporto tra la realtà e la sua trasfigurazione irreale.
Insomma, un film come Io Capitano non va letto come riproposizione pedissequa di una verità scomoda ma, anzi, come prolungamento mitologico di quella verità e come declinazione di una vicenda reale in una fiaba. Garrone lo fa utilizzando due elementi di cui si cibano le leggende: l’epica e la magia. Se da una parte la vicenda dei due ragazzi senegalesi viene riletta quasi come un viaggio di formazione in cui la dimensione avventurosa del racconto diventa quasi preminente e dominante, dall’altra ci sono inserti onirici, surreali e magici tipici delle fiabe che si raccontano ai bambini per farli addormentare. Quest’ultimi spezzano il racconto proprio quando la realtà, nei suoi momenti più spietati e agghiaccianti, sta prendendo il sopravvento, come nelle scene ambientate nel deserto o nei campi di prigionia in Libia.
Matteo Garrone e il perché degli inserti onirici in Io Capitano
Ma più che una fuga dalla realtà, per addolcire e rendere sopportabili i momenti più drammatici, questi innesti sono slanci del fantastico che servono a rendere la narrazione qualcosa di memorabile, mitizzabile, tramandabile. Forse perché la storia di un viaggio tra due continenti, che per qualunque uomo occidentale è un semplice spostamento tra due punti del globo terrestre, per i migranti africani diventa una storia così rocambolesca e tragica che è costretta a prendere le sembianze di una leggenda. Sono storie di popoli, come profetizzava il Pasolini di Profezia (poesia dedicata a Sartre nota anche con il titolo Alì dagli Occhi Azzurri), capaci di portarsi dietro una nuova poetica fatta di miti e tradizioni, contaminando un occidente senza più identità ed epica.
IO CAPITANO, I TANTI PARALLELISMI CON PINOCCHIO E LA FIABA-VERITÀ SECONDO CALVINO
Dopotutto se, per usare le sue stesse parole, «Gomorra era già un film fantasy, a modo suo», Garrone aveva già attinto all’immaginario fiabesco in modo ancora più esplicito ne Il Racconto dei Racconti e nel suo Pinocchio. Ecco, a ben vedere l’epopea di Seydou non è molto dissimile a quella della creatura di Collodi (e non è un caso che fra i co-sceneggiatori del film ci sia Massimo Ceccherini, già co-autore dell’adattamento in questione): il protagonista racconta bugie per coprire la sua volontà di partire; sogna il suo “paese dei balocchi”, ovvero la costa africana che lo può portare in Europa (e che poi scoprirà essere qualcosa di orrendo e disumano); viene raggirato da avidi mercanti di uomini come farebbero il Gatto e la Volpe se ne avessero l’occasione; viene preso sotto l’ala protettrice da un uomo che gli fa quasi da padre (Geppetto); finisce il suo viaggio di crescita personale in mezzo al mare (non dentro la pancia di una balena, ma quasi).
Dunque, forse, più che al Pasolini sopracitato (per cui comunque la forma della fabula aveva la sua centralità) , Garrone nella sua capacità di piegare la realtà in mitologia guarda direttamente a Italo Calvino, il più fiabesco tra i novecentisti. Dopotutto fu proprio Calvino a riscoprire le fiabe di Giambattista Basile da cui Garrone trasse Il Racconto dei Racconti e, anche questa volta, la trasfigurazione del viaggio disperato di Seydou è in piena sintonia con il leitmotiv di Calvino per cui «la fiaba è verità». La verità: senza bisogno di scomodare gli artifizi dei ‘film di denuncia’, perché è la stessa struttura narrativa della fiaba che fa emergere, in quello spazio in equilibrio tra realtà e fantastico, una morale inappellabile ed universale.
IO CAPITANO, LA SPIEGAZIONE DEL RUOLO CHIAVE DELLA NATURA E IL SIGNIFICATO DEL FINALE
In effetti, a parte un ammiccamento nello stesso titolo del (“Capitano” è anche il soprannome con cui è noto Matteo Salvini, il politico italiano che più di ogni altro ha costruito la propria carriera su posizioni estremamente dure contro l’immigrazione) e qualche sequenza in cui si racconta la mancata accoglienza delle guardie costiere europee, nel film di Garrone non c’è traccia (per fortuna) del dibattito tutto italiano sui migranti: il viaggio di Seydou si ferma proprio un attimo prima che lo sbarco avvenga e che si attivi il relativo circo mediatico sul tema.
Se proprio c’è qualcosa di politico nello sguardo di Garrone, sta nelle incredibili immagini catturate dal direttore della fotografia Paolo Carnera con cui ci mostra la natura che pervade tutto il film e che accompagna i migranti nel loro viaggio di speranza: i deserti (che sembrano mari) o i mari (che sembrano deserti) sono ambienti naturali tanto armonici e perfetti quanto innocui e pacifici. Una natura bellissima, ma anche neutrale e arbitraria (manca perfino il mare in tempesta, altro luogo comune dell’immaginario sulle migrazioni) ma che finisce contaminata dai drammi degli uomini che l’attraversano. Le terre, i mari e i cieli di Garrone insomma non hanno confini o frontiere: sono gli uomini che le hanno create e che li rendono paesaggi di sangue e disperazione.
Questo sarà ancora più chiaro in quella potentissima scena finale (Garrone dirà che è la prima immagine che ha pensato, quella che ha poi ha dato vita al film), che ci riporta, quasi violentemente, con i piedi per terra. Lo sguardo magnetico di Seydou Sarr, il suo volto sudato, sporco e segnato dal viaggio, i suoi occhi neri e orgogliosi che guardando davanti a sé verso la terra promessa, in un primo piano che materializza con profondità l’angoscia e la liberazione. È qui che la storia di Seydou esce fuori dal fantastico e bussa le porte della realtà. È qui che Garrone sembra dirci che se ci sarà un lieto fine, per lui e per gli altri che verranno, non dipenderà più dal mondo delle fiabe. Ma solo dal mondo degli uomini.