Fin dalle sue prime inquadrature, Vermiglio – secondo film di Maura Delpero e vera sorpresa dell’ultimo Festival di Venezia (Gran Premio della Giuria) – ci trascina immediatamente in un immaginario primordiale: vediamo mungere una mucca e quel latte diventare nutrimento per una famiglia. Un gesto semplice e naturale che però ha già dentro di sé una dinamica di rapporto sociale ben precisa: un ruolo predeterminato (quello della mucca allevata), uno sfruttamento di un corpo (la sua mungitura), il beneficio che ne trae la comunità (la famiglia). Un primo indizio, restituito attraverso le sembianze di un quadro fiammingo del ’700, di quello che ci aspetterà per tutto il resto del film. Una storia di ruoli, di sacrifici e di immolazioni, una narrazione sul dolore per i desideri negati, ma anche sulla necessità di riconoscerli e tenerli vivi, almeno dentro di sé.
Vermiglio: tra comunità e confine
Un racconto, insomma, in equilibrio, quasi ai confini dell’umanità e delle sue anime. E non è un caso che Vermiglio, il luogo (o non luogo) sulla montagna del Trentino dove è ambientata la pellicola, sia un borgo che fino al 1918 è stato “ai confini del Regno”, crocevia tra il territorio austro-ungarico e quello italiano. Il film inizia da qui, dove, nel 1944, una famiglia attraversa la propria quotidianità, tra l’asprezza del paesaggio montano e il folklore di una comunità di frontiera, lontana dal mondo civilizzato ormai sprofondato nella seconda grande guerra del secolo. Sotto lo stretto controllo del suo patriarca, il maestro del villaggio Cesare (un bravissimo Tommaso Rango), le sorelle Lucia, Ada e Livia sono costrette a vivere secondo rigide regole che limitano i loro desideri, finendo per essere condannate a subire scelte altrui perfino nel decidere del proprio futuro. La più grande, Lucia (Martina Scrinzi), trova conforto in una relazione segreta con un disertore siciliano, Pietro (Giuseppe De Domenico), che si rifugia in un granaio; Ada, la sorella di mezzo, lotta con i sensi di colpa, punendo sé stessa per la scoperta di una sessualità precoce e curiosa; Livia, la più piccola, sta appena iniziando a comprendere le complessità dell’età adulta e di quanto la guerra e i segreti della sua famiglia siano penetrati nella loro vita quotidiana.
Vermiglio: un racconto in orizzontale, a metà tra Ermanno Olmi e Kelly Reichardt
In questo affresco familiare c’è l’Olmi de L’Albero degli Zoccoli (quasi omaggiato), c’è il Giorgio Diritti delle comunità montane, ma c’è anche uno sguardo più contemporaneo e per certi versi anche più politico, che ricorda il cinema di Kelly Reichardt, non solo quello ginocentrico ma anche le sue opere più recenti come First Cow, in cui l’arcaicità del periodo e l’essenzialità della messa in scena sono un filtro per indagare le origini sociali e culturali (del capitalismo per Reichardt, dei rapporti di genere per Delpero). È in questo impianto brulicante di vita brada che Delpero dimostra una capacità fuori dal comune di unire i ritratti dei suoi personaggi, sempre senza un centro propulsore o una gerarchia di eventi, ma dando priorità a una narrazione che si distende in orizzontale, evocando una varietà di microcosmi diversi senza mai risolverli completamente. Al contrario: conferendo un carattere di infinitezza che contrasta con i limiti di un contesto chiuso e ostaggio del proprio tempo.
I colori esterni e interiori di Vermiglio
Ad alimentare questa narrativa è soprattutto un’estetica asciutta, rarefatta, con i freddi toni grigio-bluastri ad accentuare un senso di fatalità: una fatalità che rispecchia sì l’arbitrio della natura circostante (le montagne come prigione dei corpi), ma anche quel mondo sociale ineluttabile, che opprime, che sentenzia, che moraleggia, che insomma rende ostaggi della propria esistenza una serie di personaggi – tutti femminili – testimoni di una genesi fatta di desideri e sacrifici. In un equilibrio continuo e costante che non permette liberazioni, che non consente scelte di vita diverse da quelle predestinate dalla società patriarcale, che permette solo rinunce ai propri sogni e alle proprie ambizioni. Del resto, il vermiglio, inteso non come luogo ma come colore, quello che simboleggia la passione o, se vogliamo, la voglia stessa di passione, non appare mai: è piuttosto la cromia di uno stato d’animo interiore delle tre sorelle, capaci di affrontare con una certa incrollabilità quegli eventi che le travolgono o che semplicemente le standardizzano a una forma sociale predeterminata.
Vermiglio e l’indagine attraverso lo sguardo
Qui il discorso di Delpero si fa appunto sociologico, ma non si limita a uno sguardo didascalico: si sofferma sui volti e sui dettagli dei luoghi, calcola il minutaggio delle inquadrature per renderle quadri espressivi, fa dialogare campo e fuori campo aprendo all’immaginare più che al raccontare. Insomma: se la semplicità della storia e qualche stereotipo di troppo (soprattutto nell’ultimo atto) rendono Vermiglio un film apparentemente innocuo, è invece lo sguardo autoriale della sua regista che fa implodere l’indagine di quel mondo oltre a quello che vediamo. E allora la guerra, l’immigrazione, la maternità, la condizione femminile, l’orientamento sessuale diventano particelle che risaltano in un flusso inesorabile (di stagioni, di generazioni, di luoghi), e l’evocazione della loro presenza non passa da una centralità dell’azione (che è sempre repressa o messa in secondo piano), ma la percepiamo come sentimento diffuso che vibra di un suo particolare calore. Ogni vita, sembra dirci Delpero, nonostante i contesti e le condizioni sociali, anche nel più sperduto degli spazi e delle epoche, ha una sua tensione, una sua identità, un suo modo per vivere il proprio tempo senza accettare di essere compressa dalle leggi degli uomini.
Raramente, dunque, la destrutturazione per immagini di una storia quasi essenziale restituisce così tanti significati quanti ne riesce a trasmettere Maura Delpero con la sua consapevolezza del mezzo cinematografico. Vermiglio è un ritorno inaspettato e potente alla tradizione più espressiva del neorealismo italiano ma anche una sua attualizzazione necessaria, che proietta la sua autrice in una posizione quasi unica nel panorama del nostro cinema (che ha scelto proprio lei per rappresentare l’Italia ai prossimi premi Oscar). In un’epoca in cui non c’è bisogno tanto di ulteriori storie da raccontare quanto di (nuovi) sguardi e (vecchie) memorie, Delpero dimostra di avere entrambe le cose: e il materiale di Vermiglio testimonia quanta bellezza si può generare quando si è capaci di farle dialogare insieme.