La Writers Guild Italia, in collaborazione con Anonima Cinefili, nell’ambito di Venezia 74 ha incontrato Paolo Virzì in occasione della presentazione alla stampa di Ella & John – The Leisure Seeker, il film da lui co-sceneggiato (insieme a Stephen Amidon, Francesca Archibugi, Francesco Piccolo) e diretto, presentato in concorso alla 74. Mostra Internazionale d’Arte Cinematografica di Venezia. Ecco cosa ci ha detto.
Cosa ti ha ispirato più di tutto nella creazione della storia e dei personaggi?
Il processo creativo parte dall’ispirazione nata dall’omonimo libro di Michael Zadoorian, anche se leggendolo scoprirete che ha un’altra ambientazione. L’obiettivo era quello d’immaginare qualcuno più simile e familiare a noi. Abbiamo immaginato questo professore di letteratura, nel momento in cui la sua mente svanisce nelle pagine dei romanzi che ha amato e che ha insegnato per tutta una vita. Un po’ perché Animal house ha lasciato il suo segno, quel professore di liceo americano un po’ alternativo e democratico, che insegna agli studenti come fumare le canne… Per me John spencer era quel professore trent’anni dopo. E poi la seconda fonte di ispirazione è stata Helen Mirren, perché ho una devozione e un innamoramento, ve lo devo confessare, per quella donna cosi intelligente, cosi acuta, che in ogni film è capace di sorprenderti e quindi anche solo incontrarla e sarebbe stata un’esperienza strepitosa. Quindi, abbiamo immaginato questi due tipi di protagonisti durante il processo di scrittura. I produttori hanno detto poi che questa sarebbe stata l’occasione per accaparrarsi due glorie di Hollywood e hanno proposto Robert Redford e Jane Fonda. Senza nulla togliere a questi due grandi, io ho rilanciato Mirren e Sutherland. Pensavo che non avrebbero mai accettato e li ho usati come scudi, poiché fare un film è bello ma impegnativo: sarebbe stato un grande passo, ero preda di mille paure, compresa quella di perdere la mia spontaneità. Se avessero rinunciato, sarei stato al sicuro. Ma allo stesso tempo mi elettrizzava molto l’idea. Quando è arrivato il sì di Helen e Donald, ho capito che non c’era più nulla da fare. È stata un’esperienza soprattutto d’incontro artistico dove sono stato molto ispirato, anche intimidito all’inizio… Ma poi Donald è stato fantastico nei primi incontri, mi faceva sentire come un fratello. Helen ha avuto qualche resistenza, aveva amato il copione, era tentatissima ma aveva fatto un patto con sé stessa che certi ruoli non li avrebbe accettati, poi alla fine ha accettato ed aveva molta fretta di girare.
In passato altri registi italiani hanno provato ad attraversare l’oceano ma hanno perso un po’ della loro forza, mentre Ella & John ha comunque ancora la poetica di Paolo Virzì. Ci è piaciuto vedere questa continuità, cosa ti piacerebbe che gli altri vedessero di continuativo nel suo lavoro?
Sono contento che si possa osservare questo, che mi porto dietro un mio stile. Io ho una certa simpatia per i registi vagabondi, i viaggiatori come Lubitsch o Billy Wilder, che hanno portato il loro sguardo in America. Sentivo che sarebbe stato inevitabile mescolare la passione per un certo cinema americano. Hollywood non è solo il main stream di Tom Cruise, John Wayne e tanti altri, ma è anche Nashville e Mash, che sento un po’ come cugini, quasi italiani: per lo stile, per il linguaggio e per la capacità di miscelare i generi.
Tornando a parlare del romanzo, tutta la parte del tradimento nel romanzo non c’è; perché la scelta di inserirlo? Il tema della gelosia è un riferimento alla tradizione della commedia all’italiana?
Il romanzo non ha quasi plot, Noi ne abbiamo cercato uno palpabile, quindi un briciolo di più di plot nel film ce l’abbiamo messo: la gelosia e il tradimento, per esempio, sono un tocco del tutto italiano. Questo genere di passioni ci ha aiutato a dare un’idea del loro rapporto coniugale, che non è una visione sdolcinata, ma una raccolta di piccole ossessioni, di piccoli segreti, che riemergono anche in modo strampalato e addirittura comico. E così il plot è cresciuto, senza pensare di italianizzare l’America, però: semmai cercavo di rimanere autentico, di guardare ad un America privo di cliché, per questo niente Route 66 e niente Disneyland che invece nel romanzo sono presenti. Cercavamo qualcosa di più vero.
Molti tuoi colleghi incontrando star internazionali e girando in America hanno avuto dei problemi… Come sei riuscito a mantenere il controllo per girare con star e in un paese che non era il tuo?
Helen e Donald sono due persone molto intelligenti, Donald una volta letto il copione, andava in giro sul set geloso di qualsiasi cosa, era diventato John Spencer come ce lo immaginavamo. Il mio inglese non è perfetto anche se l’ho migliorato molto e a volte capitava di correggere alcune battute del copione e mi sono fatto aiutare. Noi cercavamo la semplicità, la compattezza, qualcosa di impalpabile da mettere in scena, anche se sono stati aggiunti elementi come la gelosia. Per il mio carattere ansioso ho sempre cercato di affollare i miei film di trame e sotto trame, ma questa volta ho cercato di rimanere semplice e di non aver paura dei silenzi, ed avere un ritmo più languido. Ho cercato di tenere il passo con alcune ballad di Janis Joplin, che non a caso ho messo nel film, per mantenere questa semplicità, che in fondo è stata la sfida più grande, anche di più della lingua e del paese che non conosco. Volevo non far uscire frastornato il pubblico e di sicuro mi ha aiutato il carisma di questi due grandi attori a non affrettarli, a non dire “cut” per lasciarli invece continuare liberi sia nei silenzi, sia nelle battute improvvisate che poi ho conservato nel film. Non ero dispiaciuto all’idea che mi sottraessero un po’ di scettro, il bello del cinema è quando la mano del regista a volte nemmeno la senti. Ammiro i registi più eclettici che si rendono visibili, ma a me piace una messa in scena molto più sottile.
Quali sono state le difficoltà nel girare questo film?
Un po’ è stata la rigidezza del sistema produttivo americano. È un paese in cui l’industria del cinema è un settore molto importante e le Unions, cioè i sindacati del cinema, dettano legge in maniera molto più pesante rispetto al nostro paese. In Italia si gira in un modo che loro definiscono Guerrilla style e queste differenze abbinate a una struttura più rigida come quella statunitense, sicuramente creano delle difficoltà. Faccio un esempio: dovevamo girare in un camper degli anni 70 senza aria condizionata, con solo un piccolo ventilatore per far respirare gli attori. Tra un ciak e l’altro l’aiuto regista faceva intervenire ogni volta il reparto trucco per sistemare e controllare gli attori: questo rallentava molto i lavori e a me non andava bene, glielo dicevo… Helen capiva e rideva: faceva segno che voleva girare. Con il consenso degli attori abbiamo portato un po’ di Guerilla style, asciugando praticamente al volo il loro sudore e riprendendo a girare senza che gli altri sapessero nemmeno che avevamo iniziato. Questo perché volevamo essere pronti a catturare quello che questi due attori erano capaci di creare.
Da un po’ di tempo il tuo approccio alle storie è leggermente cambiato; sei passato da un moderato cinismo a un vago romanticismo. Prima raccontavi dei personaggi che volevano essere liberi ma non ci riuscivano, invece ora fuggono e ce la fanno. Questo cambiamento si avverte anche un po’ con questo film, cosa ne pensi?
Io non m’interrogo molto su queste cose, sarebbe un po’ paralizzante. Ma non c’è dubbio che un elemento che m’interessa è quello di provare a guardare la vita in modo diverso, che non vuol dire avere più pazienza e più saggezza, ma vuol dire essere più vulnerabili e conoscere il dolore. Nel mio percorso di vita molte ferite mi hanno attraversato. L’idea della morte, della vita e di cosa verrà dopo sono tutti elementi che mi colpiscono molto, e questo influenza molto anche il linguaggio dei miei film: se mi dite che si avverte mi fa molto piacere. Sicuramente l’aggettivo romantico una volta mi avrebbe preoccupato, mentre oggi mi fa molto piacere e allo stesso tempo se si racconta l’amore, non si può essere solo romantici, bisogna essere anche un po’ stronzi, per dire quanto siamo fragili e stupidi nel momento in cui amiamo e questa coppia qui lo è molto. Questa idea di amore un po’ bisticciato e stupido è una cosa che ho conquistato di recente e non appartiene a tutto il mio passato.
Il finale di Ella & John – The Leisure Seeker è una scelta molto decisa e forte, che può anche dividere le opinioni del pubblico. Come commenti questa scelta?
Quello che è importante non è il tema, ma la storia. A volte i personaggi ti portano al finale con dei ragionamenti anche distorti, in questo caso non ho accettato di valutare le loro scelte. Non è un film a favore dell’eutanasia, ma è un film a favore della libertà personale, della libertà di scelta, a favore della dignità personale, che è qualcosa che va al di là delle leggi, delle abitudini, è un qualcosa che si ribella al destino obbligato. C’è una scena in cui s’incontrano davanti al mare e si domandano se sono in paradiso, c’è qualcosa anche di folle e magico in questo, e questo è dovuto anche al personaggio maschile che ha problemi mentali, che crede di essere già morto. C’è un sapore iniziatico in tutto questo, perché il racconto ci parla di una persona in cui la mente sta svanendo e somiglia un po’ ad uno dei personaggi di Joyce e delle canzoni di Janis Joplin.
Questo film lo consideri soltanto una piccola parentesi nella tua carriera o ti aspetti qualcos’altro dagli Stati Uniti? Punti a un Oscar?
Posso dire questo: a ottobre inizio un nuovo progetto ambientato a Roma con un cast italianissimo e per ora non ho in cantiere altri progetti che non siano italiani. La Sony, ha chiesto un tipo di distribuzione per questo film che è lo stesso di un film molto acclamato come La La Land. Guardo a questa cosa con molto scetticismo, sono molto contento di essere a Venezia e di accompagnare questo film, sapendo che comunque sta piacendo e posso essere già abbastanza felice di questo.
(a cura di Orazio Ciancone e Lorenzo Righi)