Vi ricordate John Woo, il maestro dell’azione venuto dall’Oriente? C’è stato un periodo in cui il cineasta cinese, momentaneamente trasferitosi a Hollywood, era garanzia di un occhio registico unico e riconoscibilissimo: il suo era un cinema d’azione con qualche punta d’ironia ma anche capacissimo di prendersi sul serio e di puntare addirittura al lirismo, con un uso del ralenti che ha fatto scuola ben prima di Zack Snyder e con degli elementi ricorrenti come il capovolgimento dei rapporti tra i protagonisti e la presenza di quelle colombe diventate poi una vera e propria firma iconografica. Non saranno capolavori assoluti, ma lavori come Broken Arrow, Face/Off e Mission: Impossible 2 hanno segnato il cinema d’azione contemporaneo, venendo poi citati da una pletora di emulatori.
A più di dieci anni dal suo ritorno a Hong Kong e dopo un paio di lustri spesi a dirigere wuxia, John Woo torna ora a quell’action che l’ha reso famoso, con una pellicola per il mercato asiatico che però, essendo per metà recitata in inglese, strizza l’occhio agli estimatori occidentali.
È triste constatarlo ma Manhunt, presentata in anteprima nella sezione Fuori Concorso alla 74. Mostra Internazionale d’Arte Cinematografica di Venezia, non solo non mostra traccia (o quasi) dello straordinario talento registico del cinese, ma è una vergognosa accozzaglia di pessime idee, recitata terribilmente e – cosa più grave – girata ancora peggio.
La storia è la trasposizione del romanzo Kimi yo Fundo no Kawa o Watare del giapponese Juko Nishimura, che già ricevette un adattamento cinematografico nipponico che ebbe uno straordinario successo sul mercato cinese nel 1978, dove fu la prima pellicola straniera importata dopo la Rivoluzione Culturale.
John Woo si produce ora in un’operazione commerciale nella quale si muove come un elefante in una cristalleria e in cui fa coesistere un protagonista cinese (Zhang Hanyu) e uno giapponese (Masaharu Fukuyama) e li costringe a recitare per buona parte del film in inglese, senza che nessuno dei due sia lontanamente in grado di farlo. Le interpretazioni risibili sono però il minore dei mali, dato che la pellicola è una Caporetto praticamente su ogni fronte.
La sceneggiatura confusionaria e tagliata con l’accetta fa incontrare sullo schermo un ricco avvocato che fugge da anni da un’infondata accusa di omicidio, un impeccabile detective da telefilm, un paio di inarrestabili assassine drogate di antidolorifici, un villain legato alle Big Pharma, una seducente vedova in cerca di vendetta e un plot twist incentrato su dei supersoldati dalla forza mostruosa e con la voce da demone. Cotanto trash non può essere contenuto né da quella tipica perizia realizzativa che non si nega a nessuno – e che qui cede il posto a interi passaggi ridoppiati fuori sincrono, montaggi sbagliati, green screen da barzelletta e una fotografia dilettantistica – né dalla mano di John Woo, che, pur regalando qualche ispirata e ironica autocitazione e imbroccando un paio di sequenze d’azione, decide di infarcire di rallenti scattosi ogni maledetta scena del film (d’azione o no) senza che ve ne sia necessità alcuna, e di ripescare le trovate meno riuscite dei suoi esordi a Hong Kong e peggiorarle.
Manhunt è un film così brutto da esser consigliabile al massimo per un mercoledì sera tra amici, inondato da birra, e che sta alla Mostra del Cinema di Venezia come ormai John Woo sta al grande cinema: è qualcosa di inequivocabilmente lontano. Sostenere che Woo abbia girato il film con la mano sinistra (e gli occhi bendati) non rende forse l’idea di quante siano le cattive idee che, su ogni fronte, si succedono sullo schermo; ma vi basti sapere che in molti dei passaggi seri e drammatici del film, erano tantissimi gli spettatori in sala a ridere più o meno fragorosamente. Tra questi, per la cronaca, c’era John Landis. Se questo è il contributo che John Woo può portare oggi al cinema action, verrebbe da suggerirgli di godersi un dignitoso pensionamento e lasciaci il bel ricordo del suo miglior cinema.
Venezia 74 – Manhunt: c’era una volta John Woo (recensione)
Il leggendario cineasta cinese torna all'action puntando al mercato asiatico e a quello orientale, ma scordandosi di dirigere il film.