Luca Infascelli ha co-sceneggiato con il regista Cosimo Gomez il lungometraggio Brutti e Cattivi, in sala dal 19 ottobre e già presentato nella sezione Orizzonti della 74. Mostra Internazionale d’Arte Cinematografica di Venezia.
Buongiorno, Luca. Per rompere il ghiaccio ti chiediamo un pitch del film.
Brutti e cattivi è la storia di una banda di disabili, di freaks: un uomo senza gambe, una donna senza braccia, un nano rapper e un tossico fanno una rapina in una banca che si trasforma in un grande regolamento di conti, in una guerra per accaparrarsi i soldi rubati. Allo stesso tempo, il film è anche una storia d’amore.
Ci puoi raccontare la genesi del progetto? Come sei entrato nella squadra di scrittura?
Nel 2012, come membro della giuria del Premio Solinas, avevo letto il soggetto di Brutti e Cattivi e mi era piaciuto moltissimo. Come sai, il Solinas garantisce un vero anonimato, quindi non sapevo chi l’avesse scritto. Quando sono stati assegnati i premi del concorso, che si chiama Storie per il Cinema, ho scoperto che l’autore di quella storia era Cosimo Gomez. È stata una sorpresa, perché avevamo lavorato insieme nel 1999, durante la mia primissima esperienza di scrittura per Almost Blue, su cui inizialmente lui lavorava come scenografo. Così, dopo 13 anni in cui non ci eravamo più rivisti, lui aveva proseguito la sua carriera di scenografo e io la mia strada, ci siamo incontrati e abbiamo cominciato a parlare del progetto. Io gli ho fatto delle proposte, lui le ha trovate subito stimolanti e ha rilanciato con nuove idee. Ci siamo trovati subito, il mio è stato un inserimento naturale. Avevamo parlato di Fabrizio Mosca come possibile produttore già in quella prima riunione, io avevo già lavorato con Fabrizio per Into Paradiso e speravo che potesse interessargli un progetto del genere. In effetti, così è stato. E da lì siamo partiti.
Facciamo un passo indietro. Cosa ti aveva colpito del soggetto originale?
La storia, avvincente e molto divertente. Poi ovviamente l’idea di applicare il politicamente scorretto a dei personaggi del genere. E l’evidente volontà di procedere senza freni, in totale libertà. Mi è sembrata una bellissima sfida.
Una volta davanti al PC, che metodo di scrittura avete usato? Vi siete divisi il lavoro?
No. Ci siamo visti nel suo studio – che nel frattempo è diventato anche il mio – per procedere insieme. BeC è un’opera prima, certo, ma in fondo è l’opera prima di un veterano del cinema, che ha lavorato come scenografo a decine di film e serie tv, così da subito Cosimo ha cominciato a produrre bozzetti in cui raffigurava quanto discutevamo nelle riunioni. In breve ci siamo trovati circondati da decine di disegni, ritratti dettagliati dei nostri personaggi, scene o disegni tecnici che spiegavano come avremmo potuto usare gli effetti digitali per cancellare le braccia o le gambe dei protagonisti. Questa solida componente visiva, spesso non così sviluppata in fase di scrittura, ci ha dato molta forza e consapevolezza.
Per risponderti sul metodo… Il primo giorno del lavoro sulla sceneggiatura, una volta ultimata la scaletta, Cosimo mi ha chiesto: “Ti va di scrivere insieme, passo dopo passo?” Gli ho risposto: “Proviamo”. Abbiamo proceduto così da scena 1, uno di fronte all’altro. A scrivere materialmente ero io, ma solo perché all’epoca sapevo usare meglio Final Draft.
Già dalle chiacchierate iniziali sul soggetto avevate fonti di ispirazione particolari?
Direi di sì. Volevamo recuperare, applicandolo ad oggi, un gusto per il racconto sviluppato nei primi anni ’90 dai film di Tarantino, i fratelli Coen, Rodriguez… quell’esplosione di vitalità irriverente e molto fantasiosa che di solito viene fatta risalire all’uscita di Pulp Fiction. Il primo riferimento, però, è stato Brutti, sporchi e cattivi di Ettore Scola, un capolavoro assoluto che all’epoca ha dato voce a un tipo di cinema poco praticato in Italia. Gli rendiamo omaggio con il nostro titolo e lo consideriamo un po’ il padrino del film. Saremmo onorati di essere considerati i suoi figliocci.
Hai citato un genere – il grottesco – molto peculiare e complicato da gestire per ragioni di tono. In scrittura vi siete trovati in difficoltà su questo? O eravate più preoccupati dalle possibili reazioni a una storia che ha come protagonisti dei disabili?
Sinceramente non siamo mai stati “preoccupati”. Più che altro eravamo curiosi rispetto alla possibile accoglienza che sarebbe stata riservata a un’idea del genere. Speravamo che non fosse mal interpretata, volevamo raccontare i nostri protagonisti non in quanto disabili, ma innanzitutto come esseri umani che possono essere anche dei grandissimi infami, come tutti. Per questo abbiamo cercato la complicità di varie associazioni che operano nel mondo della disabilità e con grande gioia abbia notato che apprezzavano molto la nostra storia. Questo ci ha fatto percepire di essere sulla strada giusta.
Se proprio devo individuare una difficoltà nella scrittura, ti dico la struttura: essendo un film su una rapina, in cui ci sono molti paletti fissi da rispettare e numerosi colpi di scena da gestire, ci siamo dovuti impegnare parecchio per far tornare le cose.
A proposito di genere, che film volevate fare? Una commedia politicamente scorretta che prende spunto da una rapina, o un heist-movie con forti elementi di commedia?
Non abbiamo proceduto per classificazioni, ci siamo mossi con la semplice idea di scrivere il film migliore possibile, senza pensare al genere a cui sarebbe appartenuto. Direi che commedia e azione in questo film vanno insieme, concedendo spazio a un tema per noi importante: raccontare i disabili senza pietismo. E poi c’è un’inaspettata storia d’amore, che potrebbe forse aiutare qualcuno dei protagonisti. Ma qui mi fermo, altrimenti parte la sirena di “allerta Spoiler.”
Come collochi Brutti e cattivi nel panorama del cinema italiano AD 2017?
Spero che il nostro film risponda a una domanda forte di raccontare storie in modo originale e creativo. Questo era il nostro intento.
Sul piano degli incassi si può e si deve sempre fare meglio, ma è innegabile che il cinema italiano oggi, rispetto ad anni fa, viva un momento fertile, che è sottolineato dai premi che alcuni dei nostri film ricevono ai Festival e dalla qualità dei lavori di alcuni autori nati in un’era post-ideologica. Penso a Garrone, Sorrentino, Sollima, Rohrwacher, Rosi e vari altri.
Credo che in questo momento si debba osare, si debba avere il coraggio di mettere in scena delle storie in maniera originale, libera, anche quando sembrano troppo azzardate. Ecco, una cosa che mi fa riflettere è che alcuni amici, leggendo la sceneggiatura di BeC, si sono complimentati, ma con una laconica pacca sulla spalla: “Peccato, non ve lo faranno fare mai, è troppo estremo, troppo forte…” Questa diffidenza mi annoiava, ma in fondo era comprensibile, perché anni fa le proposte come la nostra non erano proprio frequentissime. Invece il terreno era più fertile di quel che si poteva immaginare, infatti i vari finanziatori del film, a partire da Rai Cinema in Italia, il CNC in Francia e poi tutti gli altri, hanno da subito apprezzato la nostra sceneggiatura, mostrando un grande interesse. Poi è chiaro che a dare una mano sono state le uscite di Smetto quando voglio e Lo chiamavano Jeeg Robot, due film che hanno segnato un solco.
Pochi mesi fa è uscito un altro film scritto, insieme ad altri autori, anche da te: Cuori Puri. Ci può spiegare cosa cambia tra la scrittura di un film indipendente, come quello diretto da Roberto De Paolis, e quella di un film industriale, come Brutti e Cattivi?
Direi che l’unico punto in comune è che entrambi i film hanno avuto una gestazione di 5 anni. Detto questo, il lavoro di scrittura è stato opposto. Con Roberto abbiamo iniziato a scrivere il soggetto partendo da uno spunto molto forte letto su un giornale. In Cuori Puri il metodo è venuto lavorando, è il tipo di storia che volevamo raccontare che pian piano ha suggerito come procedere. Cuori Puri è un film realista, che vuole trovare nel racconto del vero la sua forza, senza esprimere giudizi; Brutti e Cattivi è invece un fumetto di periferia, un racconto che non vuole essere vero, casomai verosimile. Li ho scritti nello stesso periodo ed è stato buffo impegnarmi su due film talmente agli antipodi. Se ci ripenso, però, passare dall’uno all’altro – e viceversa – mi caricava molto. Credo che sia importante per uno sceneggiatore poter spaziare tra i generi e i toni. Intendiamoci, ho grande stima per chi si riconosce e specializza in un genere specifico, ma guardando alla mia storia mi diverte il fatto di essere coinvolto in film tanto disparati.
Un altro punto in comune tra Cuori Puri e Brutti e Cattivi è l’esperienza in un festival internazionale. Cosa ne pensi?
Tutto il bene possibile. Specialmente per i film piccoli, che così riescono a raccogliere maggiori attenzioni. Penso che i festival siano una parte importantissima del sistema-Cinema, possono aiutare quei film che a volte purtroppo vengono penalizzati dalla sala. Ma non bisogna abbattersi se non si arriva a Cannes o Venezia. Un buon film prima o poi si rivela tale, di questo sono certo.
In questo momento stai scrivendo la nuova serie televisiva Colt. Il tuo approccio è cambiato rispetto alla scrittura di un film destinato alle sale?
Personalmente no, non sento grandi differenze sul piano dell’impostazione del lavoro e sulla libertà creativa che ci viene concessa. Poi è ovvio che si tratta di formati diversi, per cui una storia che dura 5 o 10 ore ha bisogno necessariamente di un lavoro più ampio sui personaggi, di una struttura più articolata e di più turning point rispetto a quelli di un film che dura 100 minuti… Ma essenzialmente il lavoro, almeno per la mia esperienza, è lo stesso.
Sono convinto che alla nostra televisione non manchi tantissimo per trovare una misura di paragone con i prodotti anglofoni di prima fascia. Se penso ad esempio a Gomorra, la trovo una serie molto riuscita sia a livello narrativo sia a livello visivo. In generale, è difficile fare il paragone con l’America, dove il mercato delle serie è consolidato da tanto tempo, il pubblico è fidelizzato e vengono prodotte centinaia di serie all’anno. Da noi un certo tipo di serie si sta cominciando a fare solo da qualche anno, però la strada secondo me è quella giusta, parte tutto dalle idee e mi sembra che in questo momento ci siano storie molto interessanti in sviluppo, che potrebbero diventare delle ottime serie.
Ti va di segnalarci dei film o delle serie che hai visto recentemente o che ti sono rimaste impresse nella memoria?
Sicuramente ci sono dei registi a cui sono affezionato e che consiglio a tutti di studiare, guardando e riguardando i loro film. Scorsese, Kubrick, Kurosawa, Bergman, Lynch, Pasolini, Monicelli. Sono una fonte inesauribile. E poi Sam Peckinpah, che non viene quasi mai ricordato, ma è un grandissimo. Se penso a Voglio la testa di Garcia o a Sfida nell’Alta Sierra, a quel suo modo inedito e quasi istintivo di fare del western un genere improvvisamente realista, libero, crepuscolare… Non c’è un cinema migliore.
La Writers Guild Italia si batte perché venga riconosciuta agli sceneggiatori l’importanza del proprio ruolo, mentre spesso anche nei Festival di cinema i loro nomi non vengono menzionati. Cosa ne pensi?
Non potrei essere più d’accordo. Noi abbiamo questo destino: all’inizio siamo dei cardini, perché senza di noi un film o una serie non possono esistere. Poi, pian piano, il nostro ruolo perde di importanza… finché arriva l’uscita del film e le domande dei giornalisti chi se le beccano? Gli attori. Giustamente, eh, perché prestano il volto alla storia… In realtà penso che siamo abbastanza considerati, ma poco riconosciuti. Dobbiamo fare qualcosa per aumentare questa “percentuale”: se adesso siamo al 10% di riconoscimento, potremmo essere soddisfatti se arrivassimo al 20%.
(intervista è a cura di Vincenzo Sangiorgio)