Kim Nguyen ha scritto e diretto il film Eye on Juliet, presentato alle Giornate degli Autori nell’ambito della 74. Mostra Internazionale d’Arte Cinematografica e premiato con il Premio Fedora per il miglior film, assegnato dalla Federazione dei Critici Cinematografici Europei e del Mediterraneo con la seguente motivazione: “Per la maniera ispirata attraverso la quale la tecnologia diventa strumento in grado di avvicinare le persone tra loro attraverso la compassione e la dignità.”
La nostra prima domanda è sempre la stessa: potrebbe farci un breve pitch del suo film?
È la storia di un uomo che vive a Detroit e di lavoro fa il pilota di droni. Mentre sorveglia le tubature petrolifere, cerca l’amore e si strugge nel desiderio di diventare un eroe, ma ogni giorno si ritrova costretto di fronte a degli schermi. Finché non vede una coppia nel deserto. Una coppia a cui sarebbe impedito di stare insieme. E invece di sorvegliare le tubature, comincia a sorvegliare loro. Insieme a questo, comincia a farsi domande sulla propria vita. Tutta la sua vita è destinata a cambiare proprio perché ha deciso di sorvegliare quelle persone nel deserto.
Il film oscilla molto fra la realtà conservatrice dei paesi di religione araba e il futuristico mondo della tecnologia. Da dov’è nata l’idea per questo film? Dalla cronaca, o forse proprio da uno spunto tecnologico?
Dal momento che siete una testata dedicata alla sceneggiatura, vi rivelerò che inizialmente ci sono state diverse versioni di questo film. In principio c’erano tre storie parallele, e una era ambientata in India. Si intitolava The origin of the world (L’origine del mondo, ndr) e parlava di una specie di villaggio globale, e di come noi, persone del 21esimo secolo, da una parte ci rapportiamo con la tecnologia e dall’altra desideriamo il contatto umano. E quest’ultimo è sempre più difficile da ottenere, no? Alla fine, però, dopo molte riscritture, l’abbiamo semplificato intorno a questa donna dell’Africa orientale e il suo desiderio di provare amore vero, libero, autentico. E a questo tipo che vive negli Stati Uniti e vuole la stessa cosa: è un uomo romantico, e lì dove vive non è più una dote apprezzata. Deve trovare un modo per esprimersi ugualmente e finisce per farlo attraverso un mezzo meccanico, il drone. In questo mi sono divertito, come autore, a giocare con la telecamera: come se fossi un musicista intento a scrivere una canzone, e giocare con le vibrazioni che intercorrono fra due persone che cercano di comunicare, vedendo infine come ci possa essere vicinanza e prossimità anche con tutta quella tecnologia in mezzo.
Eye on Juliet tratta molto di tecnologia e vita, anche se lo fa in una maniera inusuale. Qual è il suo rapporto quotidiano con la tecnologia?
Credo si possa essere tutti d’accordo nel dire che gli smartphone stanno diventando un problema; finiscono per compromettere la nostra creatività, mettono a repentaglio la nostra concentrazione, il nostro modo di riflettere, di avere bellissime idee e cose del genere. Ci rendiamo conto di agire più in maniera orizzontale, piuttosto che verticale: non approfondiamo più, e dunque il nostro diventa un modo del tutto diverso di comprendere il mondo. Più ci penso e più credo che dovremmo auto-disciplinarci nello stesso modo in cui i nostri genitori ci dicevano sempre di guardare meno TV, per esempio. Il problema è che, adesso, noi siamo i primi a usare continuamente il telefono, tanto quanto i nostri figli, e finiamo perfino per avere meno rapporto con loro. Potremmo fare molto di più, e passare più tempo a disegnare o a giocare con loro, invece di stare al telefono.
E com’è che questo suo pensiero, questo suo rapporto con la tecnologia, ha influenzato il film?
È parte stessa del film, in maniera intrinseca e simbolica. Di fatto è una maniera più semplice per dichiarare come stiamo sempre di fronte a degli schermi e quanto desideriamo fuggire da quella situazione. Nel film abbiamo un uomo intrappolato da sempre in una “prigione di schermi”, con il desiderio di andarsene e di trovare quel rapporto fisico di cui ha bisogno.
Direbbe che il suo film parla più di comunicazione o della mancanza di essa?
(sorride) Molto interessante. In un certo senso è lo stesso argomento. Ma, sì… è molto interessante. Per esempio, pensiamo al robot che abbiamo messo in scena. È un robot imperfetto, un po’ come accadeva con i robot di Star Wars; è una tecnologia datata. E quel robot credo esprima i nostri problemi di comunicazione attraverso la tecnologia. Quindi, in un certo senso, direi che il film parla di comunicazione “difettosa”, problematica… e di incomprensioni.
Nel film cita Romeo e Giulietta, rapportando al dramma la storia dei due protagonisti. L’opera di Shakespeare, però, mette in scena un amore impossibile. Il suo diventa possibile. Perché?
(ride) Vedo questo film come una sorta di utopia ironica. Voglio dire… È come in una canzone di Louis Armstrong, o come ne La vie en rose: ironico. So bene che si tratta di qualcosa che non potrebbe mai succedere nella vita reale. È quasi come un sogno. Io lo vedo così. E in questo sogno, ci sono due persone che riescono effettivamente a salvare l’uno l’altra.
A giudicare dalla sua filmografia, è molto interessato a rappresentare realtà molto distanti dalla sua, in Canada. C’è una ragione?
Sono nato in un quartiere piuttosto benestante, in periferia, e non ho mai avuto particolari problemi in questo senso, nella mia vita. La mia vita non è mai stata in pericolo. Ci sono molti cineasti che parlano di difficoltà, di pericolo, e lo fanno spesso raccontando proprio la periferia. Io ho avuto il privilegio e il supporto di raccontare altro, da un’altra parte, e di raccontare proprio qualcosa che mi interessasse in prima persona.
La nostra ultima domanda riprende sempre il discorso di inaugurazione della Mostra del Cinema di Venezia tenuto dal direttore Barbera. Nel suo discorso, ha parlato del futuro del cinema e di come i Festival, tra cui Venezia, svolgano un ruolo fondamentale nel proporre e nello sviluppare un nuovo percorso per il cinema. Questo anno, in particolare, si è voluto farlo proprio attraverso l’innovazione tecnologica, introducendo in larga scala la realtà virtuale, per esempio. Qual è il suo punto di vista in merito?
Beh, in totale onestà… se osservate come le cose si stanno trasformando, ci sono diversi motivi per cui dovremmo cominciare ad andare nel panico (ride). Le cose stanno cambiando davvero in fretta. È quasi triste, in un certo senso, vedere che il cinema si sta trasformando. Siamo stati tristi quando la pellicola ha cominciato a scomparire, mentre adesso, in un certo senso, sembra una liberazione… Quello che è davvero importante, invece, e per cui dobbiamo davvero stare attenti, è preservare quei lavori e quelle occasioni in cui gli uomini possono essere creativi e liberi di esprimersi. È un problema che notiamo nel giornalismo di oggi: è diventato così difficile essere giornalisti ai giorni nostri, perché c’è sempre meno supporto per quello che è il… “vero giornalismo”. Accade lo stesso per i film, ma abbiamo ancora molte più opportunità, mentre i problemi per la stampa sono molto più urgenti. Davanti a noi abbiamo delle grandi aziende che vogliono raccontare storie e offrire contenuto. Il cuore di questa cosa, dunque, non possono che essere gli storyteller. Senza storyteller non c’è mercato, e questo in qualche modo mi incoraggia. Ma dovremmo cominciare ad accettare il fatto che il mezzo si sta trasformando. Personalmente non sopporto l’idea di creare prodotti industriali in poche ore, come accade spesso per la televisione, finendo per realizzare prodotti scadenti. Trovo, invece, interessante creare gli stessi prodotti in maniera più attenta e distesa, come in quelle serie da otto ore in totale, che per esempio permettono di adattare meglio anche i romanzi. Una cosa che non si può fare nel cinema, dove lo sceneggiatore si trova di fronte a delle strutture narrative molto più rigide. In questo senso, avere l’opportunità di lavorare su questi nuovi mezzi, come le serie da otto ore, è davvero stimolante. Diventa come scrivere un libro.
(intervista a cura di Lorenzo Righi)