Dopo il debutto alla 74. Mostra Internazionale d’Arte Cinematografica di Venezia, L’ordine delle Cose di Andrea Segre (qui la nostra recensione) è attualmente nelle sale italiane e il riscontro del pubblico è più che positivo, tanto che è stato recentemente annunciato un importante incremento delle copie distribuite. Il film, portato in sala da Parthenos Distribuzioni, parla con tono originale e senza retorica di immigrazione in un periodo storico particolare. Un progetto partito tre anni fa e di cui abbiamo già parlato con il co-sceneggiatore Marco Pettenello (qui l’intervista in collaborazione con WGI). Ora abbiamo il piacere di esplorarne alcuni aspetti con il regista e co-autore Andrea Segre.
Un progetto che parte da lontano, frutto di una ricerca approfondita…
Assolutamente sì. Per approcciare al tema dell’immigrazione clandestina abbiamo lavorato su due fronti: da una parte mi sono dedicato alla lettura di testi e report come si farebbe per un documentario, e dall’altra abbiamo incontrato dei funzionari che, come il protagonista, cercano di recarsi nei territori di provenienza per fermare le partenze. Ci hanno dato un prezioso contributo per capire il fenomeno. Abbiamo fatto anche una richiesta ufficiale al Ministero degli Interni per poter osservare da vicino come vengono gestiti certi aspetti ma ci è stata negata la collaborazione – in maniera comprensibile, da un certo punto di vista – nonostante parliamo di un tema di grande attenzione pubblica. Ci hanno però dato alcune informazioni che ci hanno permesso di immaginare come trattare alcune scelte narrative.
Un film in cui lo sguardo è posato su di noi, giusto?
È un film che parla dell’Italia in questo momento storico, certo. Corrado, il protagonista, è uno di noi: tutti stiamo male per questa situazione e anche se siamo convinti che sia assolutamente giusto frenare quest’ondata migratoria illegale, dietro questa consapevolezza ci sono le nostre convinzioni che vacillano. È proprio di queste nostre contraddizioni che volevamo occuparci: ecco perché come personaggio principale abbiamo scelto qualcuno che facesse un lavoro molto speciale (un funzionario statale che lontano dai riflettori agisce per fermare le partenze) ma che al contempo, con il proprio lavoro, incarnasse i desideri e le rimostranze così comuni in questo particolare periodo della vita del nostro paese. Lui mette in pratica ciò che altri teorizzano e proprio per questo si trova a vivere più intensamente quegli stessi dubbi.
L’altro percorso di ricerca che abbiamo utilizzato per il film è stata una collaborazione con un giornalista molto importante, Khalifa Abo Khraisse: un professionista capace di leggere il territorio, che si è mosso in Libia non cercando titoli a effetto ma interpretando la quotidianità.
La crescente risposta del pubblico al film dimostra proprio che c’è la volontà di avere l’occasione di riflettere in modo profondo su quel che proviamo, e di sottrarsi così a un ricatto mediatico che sostituisce la complessità di questa realtà con slogan ed estremizzazioni semplicistiche.
Colpisce molto la ricostruzione del carcere; quanto è stato difficile documentarsi?
È stato un lavoro di ricerca molto preciso fatto negli anni per capire come sono fatte quelle strutture, che luoghi sono e cosa vi succede dentro. Sono state molto importanti anche le comparse: uomini e donne africani dentro un centro di detenzione finto che ricostruivano, rivivevano e rendevano plausibile ciò che hanno vissuto nella loro vita (molti di loro sono stati in centri di detenzione, infatti).
Ne L’ordine delle Cose spicca un Paolo Pierobon straordinario, come sei arrivato a scegliere proprio lui?
Volevo un attore che avesse il tempo, la voglia e la capacità di entrare dentro il personaggio. Paolo, essendosi formato con Ronconi, sa benissimo cosa significa dedicare la propria vita e le proprie ore ad una narrazione attoriale. Lo ha fatto ed è partito dalla scherma: ha fatto tre settimane di allenamenti di scherma perché serviva ad immedesimarsi corporalmente in quell’uomo. Con Paolo avevo già lavorato ne La Prima Neve, lo conoscevo e lo stimavo: sono contento di aver accompagnato il suo esordio come protagonista.
All’interno del film è particolarmente toccante la sequenza dedicata ai colori delle città italiane e al beige della Libia…
A volte ci sono cose che, nel momento stesso in cui le scrivi, ti rendi conto che funzioneranno. Proprio per quello eviti di soffermarti ad analizzarle troppo razionalmente… Non so perché quel monologo sia così potente nel rimandare ai temi del film e anche nel rievocare tra le righe un ampio spettro di emozioni e suggestioni, ma tutti ce lo fanno notare. Lo abbiamo scritto così come ci è venuto, quasi d’istinto, e ci piace molto che sia a disposizione dello spettatore e del suo spazio di interpretazione.
Il tema dell’immigrazione incontrollata è di grandissima attualità, ma al contempo rappresenta anche una problematica della quale siamo saturi. Non era affatto scontato il successo del film…
Inizialmente i distributori che si occupano di cinema d’autore hanno dato una risposta molto chiara quando hanno visto il film: “La pellicola è bella e ci piace, ma la gente non va a vedere i film sull’immigrazione”. È stato censurato a monte per questa visione un po’ miope, e non è servito a nulla che insistessi nello spiegare che era una storia prima di tutto su noi stessi. Una distribuzione più piccola però poi ha creduto nel film, e il risultato ha premiato il loro ‘azzardo’: nella seconda settimana di proiezione abbiamo quasi raddoppiato le copie. Una bella soddisfazione, perché significa che il pubblico non vuole fermarsi alla superficie di certi argomenti spinosi.