Lunedì 25 settembre Netflix ha reso disponibili i primi due episodi di Star Trek: Discovery, show ideato da Bryan Fuller (Hannibal, American Gods) e Alex Kurtzman (sceneggiatore e regista del recente The Mummy) e prodotto dal servizio on demand americano CBS All Access. L’ultima serie TV ambientata nell’universo narrativo creato da Gene Roddenberry era stata Enterprise, andata in onda nel 2001 e conclusasi nel 2005. Presto e ingiustamente, aggiungiamo. Perché Enterprise era una serie valida, multifocale, con una solida struttura orizzontale pur mantenendo in parte il carattere verticale degli episodi.
IL PRIMO FOOTAGE: UNA FALSA PARTENZA
Ammettiamolo, il primo footage di Star Trek: Discovery diffuso alla San Diego Comic-Con aveva fatto tremare i trekkie di tutto il mondo, tanto quelli della vecchia guardia quanto i nuovi fan della Kelvin Timeline, il reboot dei film di J.J. Abrams. Erano immagini di test, materiale di lavorazione, certo, ma anche una bella zappa sui piedi per il progetto. Quel footage suggeriva effetti visivi da brutto videogioco economico, questa è la verità. Poi lo showrunner Bryan Fuller abbandona la serie. La CBS rilascia un comunicato che lo stesso Fuller in qualche modo contraddice su Entertainment Weekly: qualcuno dice che i suoi impegni con American Gods non gli consentono di lavorare in contemporanea a due progetti, ma i dissidi con la CBS erano cominciati prima del coinvolgimento nella serie ispirata al romanzo di Gaiman. Anzitutto Fuller voleva una serie antologica che facesse per la fantascienza quello che American Horror Story aveva fatto per l’horror. Quindi stagioni scollegate e ambientate in diversi periodi della Prime Timeline (quella “classica”). Poi alla regia del pilota avrebbe voluto Edgar Wright (Baby Driver) per dargli un taglio più autoriale, ma la CBS decise di imporre David Semel (Dawson’s Creek, Heroes). Poi il taglio di alcune storyline più allegoriche, le uniformi (quelle attuali con tutto quell’oro e quell’argento…) e il budget che non poteva sforare i 6-7 milioni di dollari ad episodio (questa era la stima iniziale, perché poi i costi sono lievitati fino a 8-8,5 milioni a puntata). Il risultato finale è che Fuller è rimasto come produttore esecutivo della serie insieme a Kurtzman, con il quale ha anche firmato alcuni episodi, mentre showrunner dello show sono diventati Gretchen J. Berg e Aaron Harberts.
UN ESORDIO CONVINCENTE
Per fortuna il grande pubblico quel footage fuorviante non l’ha visto e gli appassionati hanno aspettato il prodotto finito perché semplicemente volevano crederci, nonostante Fuller non fosse più a bordo. E hanno fatto bene, perché i primi due episodi di Star Trek: Discovery promettono una serie avvincente e dal design accurato. I fan ritroveranno la Flotta Stellare, la tecnologia, i temi e i valori del canone, tutti gli altri godranno di uno spettacolo che forse perde il ritmo battente dei film di Abrams (non necessariamente un male), ma si pone in equilibrio fra il vecchio e il nuovo. Forse per ora manca il rinnovamento sostanziale del genere che ci aveva regalato il validissimo reboot di Battlestar Galactica e che forse ci avrebbe dato il taglio antologico. Ma quante serie ci hanno stupito a metà stagione?
POSIZIONAMENTO CRONOLOGICO
La serie è ambientata dieci anni prima della missione quinquennale di Kirk & Co. (Serie Classica), quindi circa novanta anni dopo quella del capitano Archer di Enterprise e centodieci anni prima di The Next Generation. La linea temporale è quella canonica, quindi non la Kelvin Timeline. Vulcano sei salvo!
L’EQUIPAGGIO DELLA U.S.S. SHENZHOU
È la prima nave che conosciamo, classe Walker, e somiglia abbastanza all’Enterprise di Archer, solo che il ponte è nella parte inferiore della sezione a disco. Ha mansioni di esplorazione e supporto ai confini esterni dello spazio della Federazione Unita dei Pianeti. Al comando c’è il capitano Philippa Georgiou, interpretata da Michelle Yeoh (La Tigre e il Dragone), saggia, coraggiosa, asiatica. Al suo fianco il comandante Michael Burnham, primo ufficiale, che a dispetto del nome è una donna, l’afroamericana Sonequa Martin-Green (The Walking Dead). Il capitano la chiama Numero Uno come Picard faceva (farà) con William Riker. Allevata su Vulcano, il suo mentore è Sarek, il padre di Spock. È la protagonista della serie, un segnale importante e tematico da parte di Fuller che la volle nel cast. Ci sono diversi alieni nell’equipaggio, quello più visibile è il tenente Saru (il Doug Jones recentemente visto in The Shape of Water di Guillermo del Toro), il primo kelpien nella Flotta Stellare. Poi intravediamo una specie di robot che potrebbe essere il personaggio Airiam di cui si è parlato nei giorni scorsi, anche se le foto che sono circolate suggeriscono il contrario.
TEMATICHE TREK
Se uno dei primi baci interrazziali della storia della televisione fu quello tra Uhura (Nichelle Nichols) e Kirk (William Shatner) nell’episodio Plato’s Stepchildren della Serie Classica e sul ponte dell’Enterprise c’erano, in piena Guerra Fredda e poco dopo la Seconda Guerra Mondiale, il russo Pavel Checov (Walter Koenig) e il giapponese Hikaru Sulu (George Takei), Fuller non intende essere da meno e ci presenta una protagonista donna e afroamericana, un capitano asiatico e, più in là, un ufficiale scientifico dichiaratamente omosessuale, il tenente Stamets interpretato da Anthony Rapp (The Knick). Qualcuno dirà che anche il Sulu della Timeline Kelvin è omosessuale, ma come ricordato dallo stesso George Takei, il personaggio originale non era stato scritto così.
I KLINGON
Gli iconici alieni con la cresta vengono rivisitati nuovamente dopo i ritocchi estetici dalla Serie Classica a The Next Generation. In un divertente episodio di Deep Space Nine, The Trouble with Tribbles, alcuni membri dell’equipaggio fanno un viaggio nel tempo e si incrociano con l’equipaggio di Kirk in un mix fra footage degli anni Sessanta e nuove scene molto efficace. Interrogato dal dottor Bashir sul perché i klingon del tempo di Kirk e quelli del XXIV secolo siano tanto diversi, il tenente Worf liquida la faccenda con un laconico “È una lunga storia. A noi non piace parlarne”, dando così una non-risposta ai fan e alle loro speculazioni in merito. I nuovi Klingon non hanno capelli o anche solo peluria, hanno orecchie integrate nel cranio, colore di pelle differente e, in generale un completo redesign dei costumi e degli ambienti delle navi. Il lavoro di design fatto dal make-up artist hollywoodiano Glen Hetrick e dal creature designer Neville Page (entrambi noti al grande pubblico per la loro partecipazione in qualità di giudici al talent show Face/Off) è impressionante e i costumi sono decorati sin nei più minuti dettagli grazie anche all’utilizzo di stampanti 3D. Inoltre la tematica che stavolta i Klingon portano con sé, insieme alla diversità e alla guerra, è certamente quella del fanatismo e dell’estremismo. Nota di colore: tra i sottotitoli selezionabili su Netflix ci sono anche quelli in Klingon, la lingua inventata da Marc Okrand nella quale sono stati tradotti anche la Bibbia e le opere di William Shakespeare.
CGI E VFX
Gli effetti visivi finali sono notevoli, all’altezza delle migliori produzioni. La trasposizione della tecnologia del canone è adeguata: phaser, teletrasporto, raggio traente, campi di forza, tutto è al posto giusto. Gli ologrammi assumono un ruolo decisivo per movimentare i classici dialoghi di confronto a distanza fra i personaggi. Le navi di Star Trek: Discovery non sono invincibili né indistruttibili, sebbene lontane dal verismo di Battlestar Galactica.
LA SIGLA
I titoli di testa di Star Trek: Discovery, con la loro atmosfera fantascientifica ma retrò e una composizione che arriva quasi a ricordare l’impostazione artistica delle sigle della saga di James Bond, sono un altro modo in cui questa nuova iterazione della celebre saga sci-fi cerca una propria identità anche discostandosi dal passato. Le musiche che accompagnano le cianografie a colori invertiti che si compongono nel corso dei titoli di testa sono firmate da Jeff Russo, vincitore di tre Emmy Awards e autore delle colonne sonore di Fargo, Legion e The Night Of.
COSA HA FUNZIONATO MENO
Alcune soluzioni narrative non sono del tutto convincenti. Senza fare spoiler diciamo solo che è peculiare che su un vascello della Flotta Stellare non ci sia una squadra di ufficiali della Sicurezza che possano affiancare il capitano e il primo ufficiale nelle missioni tattiche. I flashback non sono del tutto riusciti e anzi a volte corrono il rischio di appesantire il racconto quanto gli spiegoni dialogati che cercano di evitare. Il personaggio di Michael Burnham, inoltre, a volte è fuori fuoco o sopra le righe: sembra che il tentativo di presentarci un membro dell’equipaggio diverso da quelli che già conosciamo sia più importante della coerenza della sua presenza a bordo con incarico di primo ufficiale della nave. E il fatto che sia il protagonista ad avere questo problema non può che impensierire.
CONCLUSIONI
Ciò detto Star Trek: Discovery è una serie che merita il tempo della visione e l’abbonamento a Netflix. Stiamo a guardare e forse il nuovo capitolo del leggendario franchise nato negli anni Sessanta ci regalerà le emozioni di uno show di successo, ma anche, di nuovo, spunti per ragionare sul nostro presente.