My Generation, il documentario di David Batty presentato fuori concorso alla 74. Mostra Internazionale d’Arte Cinematografica di Venezia, promette di essere un ritratto della Londra degli anni ’60, e, a ben vedere, a suo modo mantiene la promessa. Quello di Batty infatti è un lavoro di ricerca e compilazione, che non riesce neanche lontanamente a fornire una chiave di lettura, un’analisi, un approfondimento di quel contesto, eppure (proprio come farebbe un dipinto di carattere squisitamente figurativo) ci inonda di immagini memorabili, stereotipate, a tratti inverosimili, in una sovrastimolazione sensoriale che affascina e stordisce, pur non avvicinandosi neanche lontanamente alla complessità del reale.
Quella Londra di una cinquantina di anni fa sembra lontanissima dalla ‘perfida Albione’ turbata dalla Brexit e dalla minaccia terroristica: colori saturi e luminosi, musica nelle strade, minigonne vertiginose, giovani lavoratori determinati a costruire il proprio successo. La voce di Michael Caine, icona britannica tanto per la sua gioventù da playboy quanto per la sua attuale compassata signorilità, scandisce i monologhi non sempre spontanei, mentre la tesi che va affermandosi col progredire del metraggio (ammesso che ve ne sia una) porta a ignorare i tumulti sociali e politici dell’epoca, appiattendo i Sixties a una sorta di grande party in cui personaggi come i Beatles, Twiggy e lo stesso Caine decidevano le sorti dell’Impero Britannico. Incredibilmente, la Londra ritratta in My Generation è una città di soli bianchi, in cui non si fa alcuna menzione di etnie che ebbero un ruolo fondamentale in quegli anni (si pensi solo ai Londinesi di origine africana, che col loro rock-blues segnarono un’epoca non meno di quanto fecero i Fab Four).
Questa Swinging London che fagocita un’intera epoca, inondando le ombre di colori psichedelici, droghe e disinibizione, viene raccontata con una struttura tripartita, che ripercorre l’ascesa, la gloria e il tramonto di quella visione del mondo. Molte le interviste, di repertorio o originali, ma la loro disposizione caotica quasi suggerisce che non ci sia un rapporto di causa ed effetto tra le correnti culturali dell’epoca, appiattendo (ad esempio) il beat e la psichedelia in un unico momento indefinibile.
Questa sorta di delirio pop celebra disordinatamente un decennio rinnegandone la complessità e quindi, paradossalmente, rendendolo irrilevante e privo di ogni valore. Serve a poco celebrare la liberazione sessuale o l’uso libero di droghe se non se ne offre un contesto: è un’operazione sterile per chi è abbastanza vecchio da ricordare quegli anni e non riconoscerli in questa sorta di grande zapping, e lo è per chi è troppo giovane e non può relazionarsi ad essi, non comprendendone le sfumature. Rimane tanta bellissima musica, certo, ma con essa il rimpianto di esser entrati in sala con la speranza di sentire una storia e di esserne usciti avendo assistito a una lunga pubblicità: la descrizione di una generazione fatta dagli Who nella canzone da cui il film prende in prestito il titolo può andar bene per un brano musicale, ma è un po’ poco per un documentario.