Quello del bio-pic è un genere che può esser noioso: troppo spesso infatti le vite dei grandi, nella loro trasposizione cinematografica, finiscono per essere trasformate in una cerimonia retorica e ingessata, ai limiti dell’agiografico. Questo discorso non si applica neanche lontanamente a Il Mio Godard (titolo originale Le Redoutable), pellicola in cui il francese Michel Hazanavicius (che nel 2012 portò a casa 5 Oscar con The Artist) racconta uno specifico periodo nella vita del maestro della Nouvelle Vague Jean-Luc Godard.
DALLA NOUVELLE VAGUE ALLA RADICALIZZAZIONE MAOISTA
Il film, presentato alla 70° edizione del Festival di Cannes, prende spunto dalla biografia Un an après e, partendo dal rapporto sentimentale e professionale tra il regista trentottenne e l’attrice diciannovenne Anne Wiazemsky (autrice del libro nel 2015), arriva a dipingere con grandissima ironia quel momento in cui la grande arte di Godard cadde vittima della gabbia retorica della politica rivoluzionaria.
Il maestro del cinema d’Oltralpe – qui magnificamente incarnato da un Louis Garrel (The Dreamers, Les Amous Imaginaires) riconoscibile a stento – veniva da quello che poi verrà ricordato come il periodo più significativo della sua produzione artistica, in cui si era guadagnato la fama internazionale con capolavori come Il disprezzo, Questa è la mia vita e Fino all’ultimo respiro. Godard era sempre stato un rivoluzionario (d’altronde la Nouvelle Vague era proprio un segno di rottura rispetto al cinema dei padri), ma dalla Grande Rivoluzione Culturale Cinese del ’66 aveva pienamente sposato la ventata anti-borghese Maoista (pur essendo egli stesso un borghese), sentendo poi la responsabilità di diventare un esempio di coerenza Marxista durante i moti sessantottini del Maggio Francese.
IL CORTOCIRCUITO COMICO E TRISTE DI CHI VIVE DI ASSOLUTI
È proprio su questo interessantissimo momento di transizione che si concentra Hazanavicius, ritraendo un Godard grottesco, il cui ego ipertrofico e il cui fare sentenzioso lo portano a rendersi insopportabile e ridicolo agli occhi di chi ne aveva una stima assoluta, mentre il suo tentativo di ritrarre lo spirito rivoluzionario comunista nel film La Chinoise (tratto dal romanzo La cospirazione di Paul Nizan) non riceve l’accoglienza sperata (memorabile lo scambio tra lui e la Wiazemsky: “I Cinesi hanno detto che il mio film è una merda.” “Quali Cinesi?” “Quali Cinesi, quali Cinesi… Che ne so quali Cinesi?!”).
È così che Godard, ora paradossalmente visto come simbolo del conservatorismo da parte degli studenti Parigini, inizia a dubitare del proprio talento, a rinnegare il proprio percorso artistico e a gettare pubblicamente fango anche sull’operato dei più grandi registi dell’epoca (da Truffaut a Bertolucci). Il risultato sarà una lotta con se stesso che lo porterà e interrogarsi se privilegiare la ricerca di un nuovo linguaggio cinematografico o un approccio ideologicamente coerente con gli insegnamenti del Libretto Rosso, trovando poi una sintesi non troppo felice con il caotico approccio collettivo del Gruppo Dziga Vertov. Negli anni successivi poi – ma questo non lo vediamo nel film – riuscirà a individuare nuove strade e nuovi grandi film da girare.
UN LINGUAGGIO CREATIVO PER UNA RIFLESSIONE NON BANALE
Il materiale a disposizione di Hazanavicius e il suo talento gli permettono di giocare con la figura del grande cineasta e di relativizzarne l’autorevolezza filtrandola attraverso lo sguardo della tanto giovane quanto paziente compagna. Il linguaggio del film cita e mutua la Nouvelle Vague e affida a scelte deliziose parte della narrazione (dalle scritte sui muri ai sottotitoli che spiegano il non detto, dal simbolo degli occhiali continuamente frantumati all’inversione al negativo delle immagini), mentre un Garrel imbruttito, dalla prossemica oculatamente indecisa e che riproduce perfettamente la blesità di Godard, ci consegna un’interpretazione memorabile che trova un ideale complemento nella grazia di Stacy Martin (L’infanzia di un capo, Nymph()maniac).
Se l’operazione di ‘profanare’ la sacralità di Jean-Luc Godard vi sembra blasfema, sappiate che in realtà è perfettamente coerente alla causticità del personaggio ritratto e che è condotta con l’ovvia (ma non acritica) venerazione che è dovuta a uno dei più importanti registi della storia del cinema. Così come Woody Allen in Midnight in Paris ritraeva i grandi del ‘900 come uomini geniali ma non per questo scevri da piccolezze o vezzi, così Michel Hazanavicius ci restituisce la dimensione umana di un maestro, senza togliere nulla ai suoi più alti conseguimenti ma dicendo molto delle sue opere meno riuscite.
Oltre a raccontare il cinema e a divertire, Il mio Godard è anche una riflessione non superficiale sulla passione politica, sulle grandi speranze di una giustizia sociale di quegli anni e su quanto, in un mondo liberista, globalizzato e disilluso, queste istanze sembrino ingenue e a tratti risibili.
Raccontando quella passione così folgorante da influire sulle vite, gli amori e le carriere, indirettamente il film ci porta però anche a chiederci che impatto abbiano sul mondo di oggi le nostre vite asserragliate dietro i social media. E la risposta potrebbe non piacerci.
Il mio Godard sarà in sala dal 31 ottobre con Cinema di Valerio De Paolis, e ci fa particolarmente piacere sottolineare che a doppiare Louis Garrel ci sarà il nostro stimatissimo Edoardo Stoppacciaro.