Carmen e Carlos sono una coppia di mezza età e abitano in un quartiere popolare di Madrid. Hanno una figlia adolescente, Toni, che riceve le cure e le attenzioni della madre, mentre il rapporto dell’uomo con le due donne non è di quelli che si potrebbero definire precisamente empatici.
Carlos (Antonio de la Torre) è un operaio edile i cui orizzonti sono il lavoro e il calcio, una passione estrema che manifesta con il fanatismo per il Real Madrid, la sua squadra del cuore. Il suoi atteggiamenti, rudi, scontrosi, esagerati e iracondi si contrappongono al bisogno di attenzioni della figlia adolescente, e soprattutto alla vana ricerca di conferme da parte di una moglie (Maribel Verdú, vista in Y Tu Mamà Tambièn di Cuaròn e ne Il Labirinto del Fauno di Del Toro) piacente ma frustrata dall’indifferenza di suo marito. Un nucleo patriarcale forse solo apparentemente fuori dalla storia, che si mescola, si mimetizza e si rafforza (ebbene sì, ancora oggi) anche in un qualsiasi quartiere di una qualsiasi città europea.
ALL’IMPROVVISO, LA TRASFORMAZIONE NEL MARITO IDEALE
La famiglia partecipa a un matrimonio e durante la festa Carlos, carico di tutta la sua strafottenza, si offre volontario per sottoporsi ad un numero di ipnosi da parte di Pepe, illusionista dilettante e cugino di Carmen. Le cose però non vanno come dovrebbero e Carlos, sotto l’effetto di una forza incontrollabile, comincia dal giorno dopo ad essere laborioso in famiglia, premuroso, collaborativo, paziente e affettuoso sia con la moglie che con la figlia. Superato un primo momento di stupore e diffidenza, alle due donne il nuovo Carlos piace e forse per la prima volta si sentono parte di un vero nucleo familiare: apprezzate, coccolate, rispettate. Ma anche nelle belle favole si nasconde una zona grigia. Si scopre così che il protagonista durante l’ipnosi sarebbe stato posseduto da un uomo decisamente poco raccomandabile deceduto anni prima. Carmen e Pepe iniziano perciò una sorta di tour nell’occulto di Madrid, aiutati da Fumetti, una sorta di goffo mentore che si occupa di “scienze paranormali”, nel tentativo di liberare Carlos dal Male.
IL PREGIO DI UN UMORISMO NON VOLGARE
Abracadabra, presentato in concorso alla dodicesima Festa del Cinema di Roma, è un film intelligente soprattutto perché coniuga una buona recitazione degli interpreti con una sceneggiatura originale, mantenendo una piacevole leggerezza senza per questo risultare superficiale né tantomeno volgare. Lo spettatore è quasi sempre sotto pressione, in bilico tra la voglia di ridere e la paura di specchiarsi con la realtà della propria famiglia o del proprio rapporto di coppia. A ciò si aggiunge la percezione di una regia che sembra sempre spingere al massimo per provare a non dare mai nulla di scontato. Non sempre ci riesce, ma è apprezzabile che, anche nei momenti dove a prevalere è la gag, Pablo Berger, che ha firmato anche la sceneggiatura, non cerchi mai l’ironia con soluzioni facili come la volgarità.
Da questo punto di vista Abracadabra dimostra che la commedia è viva e, finalmente, viva la commedia. A dare man forte all’intero impianto una colonna sonora alcune volte spregiudicatamente a favore di pubblico ma che funziona, e soprattutto le interpretazioni, in particolare quella di Maribel Verdù. L’attrice, che abbiamo visto anche in Blancanieves dello stesso Pablo Berger del 2012, è ancora una volta una sicurezza; ma non sono da meno né Antonio de la Torre (Carlos) né la giovanissima Priscilla Delgado (la figlia Toni).
UN REGISTA ALLA RICERCA DI UN SUO STILE
Pablo Berger dietro la macchina da presa indubbiamente ci sa fare e il grande impatto visivo del bianco e nero del suo Blancanieves che rilegge la favola dei fratelli Grimm è indimenticabile. Con Abracadabra il regista spagnolo sovverte tutto e dà alla sua pellicola colori pop, alla lunga forse eccessivi per un lavoro che, camminando sul filone principale della commedia, vorrebbe mettere insieme sfumature e generi diversi. Il grottesco, buone dosi di fantastico e perfino punte di thriller non sempre si reggono insieme, e nella parte centrale del film il cineasta sembra perdere leggermente il controllo di un lavoro che, non lunghissimo (circa novanta minuti) probabilmente avrebbe avuto bisogno di ulteriori assestamenti e sforbiciate per acquistare maggiore solidità. Nella sua rilettura della fiaba dei sette nani, lo spagnolo aveva infatti dimostrato una visione molto chiara e riconoscibile, mentre quel che sembra mancare alla sua ultima pellicola è proprio quella chiave autoriale che avrebbe potuto fare la differenza. Un peccato veniale che non inficia comunque il risultato finale. Molto probabile un remake nostrano.