“Mio nonno sceglieva ogni anno un ettaro di terra, e lo lasciava incolto. Per non esagerare, per chiedere alle cose un po’ meno di quello che possono dare.”
Queste sono tra le prime parole, pronunciate da Rade Serbedzija, il tradizionalista conte Desiderio Ancillotto, con cui si apre Finché c’è prosecco c’è speranza. Fin dalle prime battute, è evidente la centralità accordata al tema della sostenibilità, asse portante della pellicola, concepito come un ideale che non resta astratto ma si concretizza nel camino di una ciminiera. Una sostenibilità che perde le sue bandiere verdi e i suoi slogan per trasformarsi in una battaglia pratica necessaria per salvaguardare delle vite.
Diretto da Antonio Padovan, Finché c’è prosecco c’è speranza è nelle nostre sale dal 31 ottobre, tratto dal libro omonimo di Fulvio Ervas. Siamo in Veneto, a Colle San Giusto, in provincia di Treviso. Sul suicidio di Desiderio Ancillotto, un vecchio conte che produceva prosecco nel rispetto della terra, viene chiamato ad indagare l’ispettore Stucky (Giuseppe Battiston). Il caso viene archiviato come semplice suicidio fin quando non vi si affianca un’altra morte, che pare collegata ad esso. Nella mente dell’ispettore inizia a farsi strada la convinzione che il movente del suicidio di Desiderio e quello del nuovo omicidio siano parte di un unico grande disegno.
Avversato in parte dal suo capo, e ostacolato dal suo stesso impaccio, Stucky comincia ad indagare tra cimiteri, vecchie governanti e partite a biliardino finalizzate a convincere eventuali testimoni a parlare. L’ispettore penetra così sempre più a fondo nel substrato culturale di Colle San Giusto, da dove emergono delle situazioni decisamente enfatizzate, come la confraternita, simile a una setta massonica, dei produttori di prosecco. Il film si muove nel filone giallo con una certa prevedibilità: lo spettatore è in grado di intuire lo sviluppo della trama per buona parte dei 101 minuti di cui si compone la pellicola. Quando sembra che la pellicola non abbia poi grandi sorprese da offrire, crollando improvvisamente tutte le certezze, e il film diventa più interessante.
Quello che voleva presentarsi come un colpo di scena perde però la sua forza sia per l’assenza di nuovo mistero e aspettativa, sia per la carenza di tensione drammatica nel momento della rivelazione, sia per l’incapacità di confondere lo spettatore, caratteristica fondamentale per conferire forza magnetica a un giallo. E nonostante ciò, se l’identità dell’assassino riesce a rimanere un mistero sufficientemente celato, il movente si rivela agli occhi dello spettatore tramite un semplice gesto dell’ispettore, molto prima di essere arrivati alla metà della pellicola. Tutto quello che viene successivamente scoperto per chiarirlo non sortisce quindi alcun effetto sorpresa nel pubblico.
La presenza di comprimari affidati a interpreti non sempre convincenti è bilanciata dalla buona resa di Giuseppe Battiston, grande talento spesso sottovalutato e la cui grande spontaneità emerge nei panni dell’ispettore. Il suo personaggio, tuttavia, è delineato in modo abbastanza stereotipato. Stucky è single, impacciato, messo da parte dal capo: la descrizione generica del classico ultimo che conclude brillantemente un caso insolubile per tutti gli altri colleghi. A questo si aggiunge l’assenza di equilibrio e coerenza comportamentale: l’ispettore alterna scene in cui si mostra autoritario ad altre in cui pare quasi soccombere al suo interlocutore.
L’evocazione tranquilla e pacifica dell’atmosfera di un paesino sperduto, fonte di forte suggestione emotiva, e interessanti e ben resi momenti comici sono bilanciati in negativo da una sotto trama romantica priva di una funzione specifica, non adeguatamente sviluppata, e che dunque non aggiunge nulla alla pellicola, dilungandola solo ulteriormente.