Quando Hayao Miyazaki annunciò il suo ritiro dall’attività cinematografica dopo l’ennesimo capolavoro presentato durante la 70ª Mostra internazionale d’arte cinematografica di Venezia, lo sconforto tra i fan di tutto il mondo era enorme. Il genio indiscusso che aveva dato vita a quella fabbrica dei sogni del Sol Levante con il nome di Studio Ghibli insieme ad altre personalità illustri del calibro di Isao Takahata e Toshio Suzuki, stava per abbandonare definitivamente il mondo dell’animazione nipponica; quel mondo che così strenuamente aveva contribuito a far conoscere in tutto il globo.
Ma poteva l’estro creativo di colui che ha dato origine a interi quadri meravigliosi, colmi di personaggi così accattivanti e iconici, cessare ed estinguersi da un momento all’altro, senza più possibilità di ritornare forte come un tempo?
Evidentemente, come dimostra il documentario andato in onda sulla rete televisiva NHK e ora pronto per la distribuzione cinematografica nel nostro paese, il suo irrefrenabile desiderio di creazione non si è ancora del tutto sopito e anzi continua ad alimentarsi di nuova energia.
Diretto da Kaku Arakawa, Never Ending Man non è altro che il risultato dei numerosi interrogativi che Miyazaki ha continuato a porsi durante quest’ultima fase della sua vita e mostra un uomo ancora pieno di idee ma consapevole che il tempo per realizzarle ormai è agli sgoccioli. I suoi dubbi, i problemi legati all’età avanzata, le enormi responsabilità che ancora pendono sul suo capo stanco o i momenti di sconforto come la morte dei colleghi e amici di lunga data, sono tutti momenti di profonda intimità e tenerezza che vengono carpiti con un linguaggio asciutto, quasi amatoriale ma per questo discreto e rispettoso. Arakawa sa che il suo argomento è abbastanza intrigante e rifiuta di caricare il documentario con una complessa struttura narrativa. Al contrario pone l’obiettivo su un unico breve periodo seguendo, nei due anni successivi al ritiro del maestro, le fasi di lavorazione a un progetto tutto nuovo, piccolo ma necessario: il primo cortometraggio da lui realizzato completamente in CGI.
Boro il bruco ha rappresentato per Miyazaki una nuova sfida estremamente complessa che lo ha però avvicinato alle giovani leve dell’animazione digitale, potendone in questo modo assorbire l’energia. Lo si vede costantemente al lavoro, severo nel dirigere il team e i singoli componenti, ma lauto di preziosi consigli per far eseguire al meglio anche una semplicissima animazione (per esempio la nascita del piccolo bruco dal suo guscio, fatta rifare decine e decine di volte). “Gli animatori CGI si concentrano troppo sul movimento e poco sulla volontà, ma è quest’ultima che fa muovere” afferma sconsolato mentre osserva su schermo il dorso di Boro, ancora così poco sinuoso. Poi prova ad aggiungere, togliere e colorare, alle prese con una tavoletta grafica super-tecnologica che lo vede in difficoltà anche solo nell’aggiungere dei piccoli peli sulle guance del bruco, modifiche che a suo dire “noteranno solo i bambini”. Ma è proprio questa la vera natura di Miyazaki, un artista che ha saputo coltivare il fanciullo che è in lui per poter stupire e sorprendere gli occhi curiosi di chi sente ancora il bisogno atavico e infantile di meravigliarsi.
Never Ending Man è quindi un documento prezioso nella sua estrema semplicità, per chi è interessato a scoprire la versione più intima e inedita del maestro; uno degli ultimi grandi artigiani dell’animazione mondiale. E proprio come quel bruco che rinasce e guarda il mondo con occhi nuovi (il soggetto del corto del resto è esplicativo del periodo difficile del regista), Hayao Miyazaki, smarritosi nel territorio impervio della CGI, è ora invece pronto per un ultimo e ambizioso lungometraggio animato che probabilmente vedremo entro le prossime Olimpiadi di Tokyo.
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