Dopo aver analizzato la prima parte della filmografia di Terrence Malick, dall’esordio de La Rabbia Giovane al dimenticato The New World, abbiamo voluto continuare questo nostro percorso critico nel mondo del regista Texano soffermandoci sui film successivi, quelli più anarchici, discussi, ma senz’altro più significativi dal punto di vista del linguaggio cinematografico. Perché con la realizzazione del più famoso The Tree of Life, vera opera di svolta nella poetica malickiana, lo stile dell’autore cambia radicalmente: non più costretto nei dettami registici più classici, Malick libera finalmente la vera essenza della sua arte; un cinema ermetico e peculiare che sottende una riflessione ontologica sull’esistenza umana e sull’universo cui appartiene.
THE TREE OF LIFE (2011)
Come accennato nella prima parte in merito al progetto incompiuto di Q, è solo al suo quinto lungometraggio che Malick riesce finalmente a condensare in un’opera filmica di più ampio respiro il materiale visivo e narrativo che già aveva raccolto anni prima. The Tree of Life è senza ombra di dubbio il suo film più ambizioso, il più viscerale, forse il meno compreso (insieme al complementare Voyage Of Time), ma che in definitiva rappresenta la quintessenza del suo cinema. La trama, riprendendo alcuni episodi autobiografici del regista, ruota attorno ad una famiglia texana degli anni cinquanta e alla progressiva crescita dei tre figli della coppia interpretata da Brad Pitt e Jessica Chastain. Il protagonista nel presente è il primogenito Jack (Sean Penn), che venuto a conoscenza della morte del fratello – verificatasi all’età di 19 anni – inizia a ricordare e a rivivere in un percorso esistenziale tutto interiore i momenti felici e malinconici della sua infanzia. Accanto alla realtà del microcosmo familiare, così intimo e così dolce, si alternano però le sequenze macrocosmiche della nascita della vita sulla terra, in un crescendo di immagini dalla bellezza avvincente (merito anche della direzione della fotografia di Emmanuel Lubezki) accompagnate da componimenti sinfonici indimenticabili (dalla Lacrimosa di Preisner all’Inno a Dioniso di Holst passando per la commovente Moldava dalla Mia Patria di Smetana), attraverso cui il regista indaga l’universo e la sua evoluzione. L’infinitamente piccolo si confronta così con l’infinitamente grande ma la tematica per così dire “cosmologica” non è la sola dicotomia presente all’interno del film: vita e morte, particolare e universale, padre e madre (che rappresentano i due poli ideali dell’Educazione d’Aquiniana, ossia la via della natura e la via della grazia) sono tesi e antitesi di un mondo in perenne stato conflittuale sin dai suoi albori, e le cui conseguenze si riflettono inevitabilmente nei comportamenti e nel pensiero del protagonista durante il delicato periodo puberale.
Tralasciando però il significato intrinseco dell’opera – che ricordiamo valse a Malick la Palma d’Oro al Festival di Cannes – The Tree of Life è innanzitutto un profondo e sentito inno alla vita in ogni sua forma: la macro-sequenza centrale in particolare, che vede la nascita e la crescita dei tre fratelli, è restituita con una sensibilità e una raffinatezza compositiva che commuove e incanta, senza che troppe parole (se non quelle in voice over) possano rovinarne l’esperienza sensoriale. The Tree of Life diventa così “immagine ottica-sonora pura” – usando un termine tipicamente Deleuziano – in cui i movimenti di macchina incedono fluttuanti e sfuggenti per esprimere al meglio la fugacità del tempo e la frammentarietà del ricordo. Ormai completamente antinarrativo e anarchico nel linguaggio, Malick al suo quinto film consegue appieno la cifra stilistica che da tempo andava cercando.
TO THE WONDER (2012)
Presentato alla Mostra Internazionale d’Arte Cinematografica di Venezia dopo solo un anno dal precedente lungometraggio (cosa alquanto insolita per Malick), con To the Wonder il regista texano compie un ulteriore passo in avanti verso l’astrazione e la stilizzazione della messa in scena. La storia ruota attorno a Niel (Ben Affleck) e Marina (Olga Kurylenko), una giovane coppia conosciutasi in Francia ai piedi di Mont-Sant Michel (la “meraviglia d’occidente” che dà il nome al film) e trasferitasi poi nell’America rurale dell’Oklahoma, dove il loro amore inizia a entrare in crisi. Nel frattempo un sacerdote spagnolo di nome Quintana (Javier Bardem) incomincia un percorso interiore e tormentato interrogandosi sulla propria fede.
Se in The Tree of Life l’incedere per sottrazione e per ellissi temporali serviva per restituire a schermo quel senso di evanescenza, confusione e mistero tipiche di un ricordo lontano, qui Malick cerca di trasfigurare il proprio cinema in qualcosa di completamente universale dove i protagonisti non sono più figure delineate e precise (seppur nei suoi film non siano mai facilmente inquadrabili) ma forme incerte e approssimate che in un certo senso rappresentano l’idea platonica di loro stesse in un ottica tipicamente malickiana: così Padre Quintana incarna il dubbio religioso, mentre Niel è l’insicurezza, l’apatia e il silenzio, in totale contrasto con la radiosa Marina che simboleggia l’amore passionale e l’entusiasmo disincantato. In nessun modo quindi sono ritratti come personaggi particolari o pregni di sfaccettature che ne possano risaltare la figura e renderla peculiare, ma sono unicamente individui rappresentativi di un concetto universale, esili e sfumati come devono essere per suscitare emozioni più autentiche (un’espediente che non a caso ha inasprito buona parte della critica alla sua uscita). E se è vero che To the Wonder non eguaglia il suo precedente lavoro in termini di profondità dei contenuti e di intensità della riflessione, va riconosciuto senz’altro al regista il coraggio di aver rifiutato, quasi radicalmente, ogni compromesso o codice classico della narrazione cinematografica; e aver carpito invece con sguardo inedito e senza filtri solo ciò che rimane alle immagini una volta limato tutto il superfluo: la “meraviglia”.
KNIGHT OF CUPS (2015)
Passato un po’ in sordina alla 65ª edizione del Festival di Berlino e con una distribuzione alquanto travagliata, il settimo film del regista si rifà nuovamente al suo passato, periodo in cui la morte del fratello – avvenuta prematuramente – provocò in lui un forte senso di abbandono e tristezza (come già era emerso in The Tree of Life). Rick, il “fante di coppe” interpretato da Christian Bale, è uno sceneggiatore di successo e un uomo ormai distrutto che, caduto in una sorta di torpore esistenziale, comincia a interrogarsi sulla sua vita, su ciò che sta cercando e su ciò che non ha mai saputo trovare. Così, tra ville lussuose, spiagge e locali notturni, come un sonnambulo errante in terra straniera, cerca di trovare le risposte fondamentali grazie all’aiuto di sei donne seducenti (ognuna simboleggiata da una carta dei tarocchi) che via via lo accompagneranno nel suo percorso interiore.
È inutile soffermarsi nuovamente, su come il cinema di Malick sia qui ancora più frammentario e disgregato, eppure così mirabilmente coeso nel suo ricercato e sublime disordine strutturale. È invece precipuo sottolineare come il percorso introspettivo intrapreso dal protagonista per acquisire consapevolezza di sé, sia a ben vedere una sorta di Odissea silente nella realtà odierna, un viaggio immaginifico e a tratti onirico nella “dolce vita” della Los Angeles più profana: luogo senza tempo di perdizione e peccato che condensa in sé tutte le sfaccettature del mondo moderno. Se un film come The Tree of Life (che non a caso condivide con quest’ultimo alcuni punti cruciali) poneva le basi di una riflessione totalizzante sulla cosmogonia dell’universo per soffermarsi infine nel microcosmo idilliaco di un nucleo famigliare anni ’50, Knight of Cups continua questo complesso saggio filosofico svelando, con una certa amarezza, come quell’inizio magico e sfavillante, spettacolo meraviglioso e origine di tutte le cose, sia invece culminato nell’oblio e nella decadenza del nuovo millennio. Dopo i trascorsi tumultuosi del protagonista nell’infausta città degli angeli, il film si conclude però concedendo un’ultima possibilità di redenzione sul finale, nella bellissima sequenza che vede lui stesso allontanarsi in automobile verso una meta e un futuro incerto; in testa una frase che ne presagisce la speranza.
VOYAGE OF TIME (2017)
Dopo una lunghissima gestazione durata quarant’anni e un lavoro estenuante di riprese e montaggio, il secondo figlio di quel progetto singolare rielaborato per decenni e mai realizzato di nome Q, vede finalmente la luce nel 2017 tra i film in concorso della 73ª Mostra internazionale d’arte cinematografica di Venezia. Voyage of Time, come ci suggerisce il titolo, è un documentario affascinante e ambizioso alla riscoperta delle origini della Terra e di tutte le specie viventi che di volta in volta ne hanno attraversato il suolo, dai microorganismi all’homo sapiens, passando per i dinosauri e le misteriose creature delle profondità oceaniche.
In un tripudio di suoni, colori, forme inusuali e segrete, Malick ripropone la sua visione dell’universo in un’ottica sì scientifica ma soprattutto filosofica e romantica (come già ci aveva abituato in The Tree of Life) interrogandosi di volta in volta sul senso della vita e dell’amore e lasciando alla narrazione extradiegetica – affidata questa volta a Cate Blanchett – l’invocazione costante di una presenza panteistica e spirituale insita nella natura. Il tono di voce sussurrato dell’attrice statunitense risuona così come una preghiera liturgica mentre la richiama a sé come “Madre, donatrice di vita e portatrice di luce”, invisibile eppure sempre presente, primo motore dell’universo che ha innescato quel meccanismo perfetto e incessante di prosecuzione evolutiva. Perché agli occhi del regista texano l’evoluzione biologica è prima di tutto un processo creativo che ha dato vita a organismi sempre più complessi e meravigliosi, collegati tra loro come parte integrante e interdipendente di un unico è grandioso spettacolo; il più trionfale che la Terra abbia mai allestito.
E se è vero, come già è stato scritto, che Malick ripropone in Voyage of Time lo stesso modus operandi già utilizzato precedentemente (si pensi agli inizi di The Tree of Life) e che quindi non offre una novità in termini di costruzione narrativa e formale – che si assesta invece in un susseguirsi di lunghe sequenze senza dialoghi – la bellezza sensazionale delle immagini (in altissima definizione) e lo stupore che ne deriva sin da subito, non solo valgono l’intera visione del documentario ma garantiscono un’esperienza indimenticabile e travolgente; un vero e proprio viaggio nel tempo che si offre come completamento ideale e indispensabile dell’opera con Pitt e la Chastain.
SONG TO SONG (2016)
Il 2017 è l’anno di Song to Song, ma la pellicola presentata al South by Southwest – uno dei più grandi festival musicali degli Stati Uniti, che ha sede ad Austin e presenta anche una sezione dedicata al cinema – è stato girato contemporaneamente a Knight of Cups e in qualche modo ne rappresenta un prosieguo, o meglio, uno sguardo alternativo sulla stessa realtà contemporanea decadente. Il film è ambientato proprio nella città texana, in un periodo di intensa esuberanza artistica nella scena musicale dei suoi tre festival più importanti, dove due coppie agli antipodi ricercano il proprio successo, tra sesso, droga e rock ’n’ roll. Edonismo ed esistenzialismo di nuovo si mescolano in maniera indissolubile per dimostrare come la ricerca del piacere, degli stimoli sensoriali e amorosi siano essi stessi il vero motore dell’anima che spinge l’uomo a sondare il suo io interiore. Malick si affida questa volta a più protagonisti per indagare il regresso spirituale del presente e così, a rimarcare la perdita di una figura dominante nella sua concezione della società, il ramingo solitario di Knight of Cups lascia qui spazio alla coppia tipicamente malickiana dell’insicuro BV (Ryan Gosling) e della vitale Faye (Rooney Mara), a cui seguirà il rapporto servo-padrone tra il tracotante Cook (Michael Fassbender) e la sua dolce Rhonda (Natalie Portman).
Film gemello al precedente con cui condivide anche uno stesso stile di regia, Song To Song è il ritratto disperato di un mondo in declino, i cui figli si sentono imprigionati e oppressi nello spirito, abbandonati a sé e senza punti di riferimento, che solo attraverso l’arte e il soddisfacimento dei piaceri della carne possono ritrovare un barlume di effimera felicità e di illusiva evasione. È nei personaggi femminili, interpretati da Rooney Mara e Natalie Portman, che meglio se ne esplica il concetto: l’una dai lineamenti androgini – divisa nell’amore tra uomini e donne – che ricerca una libertà fittizia abbandonandosi alla lussuria del momento, senza capire che proprio quegli esercizi sessuali le impediscono di vivere senza costrizioni, e l’altra, sensuale e bella come un sogno ma piegata dai debiti e succube del potere e del più forte (come ci suggerisce la bellissima sequenza in cui ingolla a carponi un liquore versatole da Cook, chino su di lei), che trova l’autentica libertà tanto agognata nell’unico modo veramente possibile: attraverso la morte. Canzone dopo canzone, amore dopo amore, il film giunge così ad un finale forse troppo frettoloso ma, come da tradizione del regista, speranzoso e riconciliante.