Il film d’apertura della seconda parte dell’Asian Film Festival 2017 è 7 Days’ Graffiti del debuttante Hanjian Liang, ennesimo nome emergente della nuova ondata di registi cinesi.
Il film racconta la storia di Sam, un giovane che va alla ricerca dell’ex fidanzata partita alla volta di Guangzhou per lavorare, ma che pare essere tornata nel suo paese d’origine.
L’impianto di 7 Days’ Graffiti è estremamente ambiguo; oscilla continuamente tra il documentario e il cinema di finzione, ricordando in qualche modo gli esordi dell’acclamato Jia Zhangke e il suo sguardo freddo e distaccato sulla Cina contemporanea.
UNA STORIA PERSONALE PER RACCONTARE UN PAESE
Hanjian mette in scena una storia che è contemporaneamente film romantico e accusa sociale, andando ad esaminare un paese ricco di contraddizioni, dove a prosperare sono in pochissimi e dove il progresso non è mai realmente arrivato – almeno non nelle zone rurali e periferiche.
Proprio come A Touch of Sin di Jia, o come Bitter Money di Wang Bing, 7 Days’ Graffiti pone al centro della propria indagine il sistema Cinese con le sue incongruenze, gli strascichi del comunismo che vanno a cozzare con le nuove forme di capitalismo che sbarcano nel paese (c’è un personaggio che è stato attirato in un sistema di marketing piramidale) e la disillusione dei giovani.
Sam, come i suoi coetanei, è un eterno indeciso; un giovane dalle enormi potenzialità che però ha rinunciato all’università per vendere accessori per smartphone, senza mai puntare ad un vero lavoro o ad una qualsiasi forma di riscatto.
Vive coi genitori in una casa in montagna, vicina alle miniere in cui suo padre si è spaccato la schiena tutta la vita per permettergli di studiare, passa le proprie giornate in motorino o a giocare ai videogames. Sam non ha uno scopo, perlomeno non fino a che scopre che la sua ex fidanzata è tornata in città. È da quando riceve la notizia che si mette in moto per la prima volta in lui qualcosa, è da quel momento che Sam insegue qualcosa per la prima volta, e da questo dipende la svolta definitiva.
UNA PELLICOLA NON ALL’ALTEZZA DEL PANORAMA CINESE CONTEMPORANEO
Nonostante le possibilità offerte dal soggetto, 7 Days’ Graffiti è una rielaborazione poco convincente delle pulsioni che hanno mosso fin qui i vari Jia Zhangke, Wang Bing e Zhao Liang; un film acerbo caratterizzato da una regia grezza e poco curata che nulla ha da aggiungere alla produzione del cinema Cinese contemporaneo. L’uso della camera a spalla è tanto preponderante da diventare una fastidiosa distrazione, vi sono momenti che sembrano inseriti solo per raggiungere un minutaggio da lungometraggio e, soprattutto, c’è una costante ed esasperante lentezza di fondo. 7 Days’ Graffiti è infatti caratterizzato da un incedere flemmatico che non apporta nulla all’insieme e che, anzi, protrae per 94 minuti una storia per la quale basterebbe la metà del tempo. Un film che lo spettatore subisce, più che seguire, e che non presenta guizzi che ne destino l’attenzione. Se il debutto di Hanjan non colpisce – o lo fa in negativo –, non possiamo comunque che augurare al giovane cineasta di trovare una strada più personale alla settima arte, e con essa una maggiore passione per il mezzo filmico. Quanto abbiamo visto ad oggi è solo una riproposizione senza slanci o talento di un Cinema ben più ambizioso del suo.