A Cannes se n’è parlato, al pari di Okja, più per il fatto che sia stato prodotto da Netflix per la distribuzione esclusiva sulla sua piattaforma che per la sua effettiva qualità. The Meyerowitz Stories però, a mesi di distanza dal polverone francese, è una pellicola che merita tutt’altra attenzione.
L’ultima fatica di Noah Baumbach segna il suo ritorno alla tematica familiare; un discorso che il regista aveva avviato già al suo esordio, con quel The Squid and the Whale che proponeva un racconto autobiografico sul divorzio dei suoi genitori e sull’impatto che ebbe sui figli.
In The Meyerowitz Stories ritroviamo tre fratellastri, Danny (Adam Sandler), Matthew (Ben Stiller) e Jean (Elizabeth Marvel, la Heather Dunbar di House of Cards) alle prese con il loro genitore egocentrico ed egoista (Dustin Hoffman), un famoso scultore dal carattere permaloso che nella vita non è riuscito a prendersi cura a sufficienza di loro. Fra divorzi, problemi sentimentali e difficoltà lavorative, le vite dei comprimari si riveleranno in qualche modo un’emanazione diretta delle scelte presenti e (soprattutto) passate del padre, che Hoffman incarna con una performance magistrale.
The Meyerowitz stories non è forse il miglior lavoro del regista newyorkese (che dopo il fulminante esordio si era fatto notare per i lavori ideati e scritti con la sua compagna Greta Gerwig, come Frances Ha e Mistress America), tuttavia, in questa nuova opera il regista sembra tirare le somme della prima parte della propria carriera, scrivendo e dirigendo una pellicola che contiene in sé tutti i temi precedentemente affrontati.
Lo scontro fra i vecchi e giovani, che già era stato affrontato in Giovani Si Diventa, si trasforma in questa sede nell’occasione per un confronto artistico. Da una parte troviamo le sculture di Harold e dei suoi colleghi – ‘grandi maestri’ ai quali si dedicano quelle retrospettive dei cui frequentatori intellettualoidi Woody Allen si è sempre preso gioco –, dall’altra c’è l’innovativa videoarte cui si dedica la nipote Eliza Meyerowitz (Grace Van Patten).
In The Squid and The Whale, Baumbach portava in scena un ambiente simile a quello frequentato dai Meyerowitz: i genitori del regista sono scrittori e insegnanti universitari; intellettuali che si aspettano che i figli seguano le loro orme. Vivono in mondo nel quale il mestiere dell’artista sembra facilmente raggiungibile, in un contesto nel quale ognuno ha o dovrebbe avere un preciso talento e in cui si comunica autoreferenzialmente solo attraverso la propria opera – proprio come succede con il capofamiglia dei Meterowitz.
Gli oggetti creati da Harold diventano dunque l’unico mezzo per stabilire un contatto con i suoi figli, tanto da un punto di vista burocratico (il personaggio di Ben Stiller si occupa della loro vendita) quanto da un punto di vista affettivo e nostalgico, come è quello del personaggio di Adam Sandler.
Baumbach si conferma straordinario nello scrivere dialoghi divertenti, rapidi, ritmati alla perfezione, diretti con grande cura. Gli incontri tra i famigliari provocano sempre una risata, i piccoli film di Eliza sono esilaranti e fino al secondo atto il film scorre rapido. Il problema di The Meyerowitz Story è tutto concentrato nel suo finale, poiché quando è il momento di tirare le somme il regista opta per la risoluzione più banale, pronosticatile e molto anticlimatica. Il genere della commedia richiederebbe una chiusura dal grande impatto emotivo, sia essa commovente o esilarante, ma Baumbach preferisce chiudere in levare.