Nel geniale e perturbante cinema di Yorgos Lanthimos (The Lobster, Dogtooth, Alps) nulla è lasciato al caso. Come accadeva per il suo principale punto di riferimento artistico (il Buñuel surrealista), ogni pennellata è giustapposta su una tela il cui scopo è sconvolgere e, solo dopo un’attenta analisi, esser compresa nel dettaglio.
LA PASSIONE SECONDO LANTHIMOS
Non deve quindi stupire se apriamo questa analisi richiamando l’attenzione alle note dell’incipit di La Passione Secondo Giovanni di Johann Sebastian Bach (che accompagnano la scena finale de Il Sacrificio del Cervo Sacro – The Killing of a Sacred Deer come già accadeva in Lo Specchio di Andrej Tarkovskij), e con esse al coro che canta le parole dell’VIII salmo della Bibbia: «O Signore, nostro Dio, quanto è grande il tuo nome su tutta la terra: sopra i cieli si innalza la tua magnificenza!». Quelle parole sono fondamentali per la comprensione dell’ultima opera del grande cineasta ellenico: sono infatti messe lì proprio per schiaffeggiarci e ricordarci che di quel dio misericordioso non c’è traccia, in un affronto finale che in modo beffardo e amaro suggella una parabola di dolore e nichilismo.
La storia del film è a dir poco stringata, seppur lasciata decantare in due ore di metraggio nelle quali l’attenzione dello spettatore viene rapita con la forza: Steven (uno straordinario Colin Farrell) è un cardiologo con una splendida moglie (Nicole Kidman) e due figli dei quali andare orgoglioso. Lo vediamo però spesso in compagnia di un ragazzo giovanissimo (il notevole Barry Keoghan, già visto in Dunkirk) senza capire la natura di questa frequentazione. Le strade dei protagonisti inizieranno a intersecarsi in modi imprevedibili quando uno dei personaggi manifesterà una misteriosa malattia.
L’IMPERFETTA TRAGICITÀ DI EURIPIDE
(l’articolo non contiene spoiler sulla trama, ma alcuni indispensabili parallelismi potrebbero suggerirne possibili sviluppi)
Il titolo del film rimanda al sacrificio con cui si conclude l’Ifigenia in Àulide, tragedia greca cui si ispira lo script firmato da Lanthimos col suo immancabile braccio destro Efthymis Filippou; ma se l’uccisione della protagonista dell’opera euripidea da parte del padre veniva interrotta da una cerva sacrificale inviata dalla dea Artemide – in modo analogo all’episodio biblico del sacrificio di Isacco per mano di Abramo, in cui in extremis il Signore sostituiva un ariete al bambino –, qui non vi è traccia di alcuna divinità salvifica, a dispetto delle parti corali proposte nel finale. Anzi, Lanthimos sceglie di collocare la famiglia del protagonista nella torre eburnea della borghesia non tanto per un’allegoria politica (che non collimerebbe con tutti i passaggi della trama), quanto per potenziare la dinamica narrativa e dimostrare che nessun luogo è al sicuro: più in alto ci si illude di essere, più rovinosa può dimostrarsi la caduta.
CAMBIARE LE REGOLE DELLA REALTÀ PER RICORDARCI I NOSTRI LIMITI
Nell’universo narrativo eretto da Lanthimos e Filippou ne Il Sacrificio del Cervo Sacro (The Killing of a Sacred Deer) infatti c’è posto per l’inspiegabile, per il metafisico, ma non per qualcosa di più grande di noi. Siamo lasciati soli con tutta la nostra incapacità di comprendere, e la sospensione delle regole della realtà – come sempre nel cinema del greco – serve solo a metterci dinnanzi ai nostri limiti, e al contempo a ricordarci che nessuno ci aiuterà a superarli.
Il dolore (che sia quello fisico di un morso o quello intangibile del rancore) è un’esperienza catartica ma ineludibile: è questo uno dei punti chiave della sceneggiatura del film, e ancora una volta Lanthimos usa la musica per sottolineare il suo intento sin dalla primissima scena del film, in cui alle immagini di un cuore pulsante si accompagna lo Stabat Mater di Schubert, e cioè una preghiera in cui il fedele chiede alla Vergine Maria di renderlo partecipe delle pene del figlio crocifisso.
LA MACCHINA DA PRESA COME UN FANTASMA
Rispetto ai lavori passati, qui il percorso del Lanthimos sceneggiatore si fa meno labirintico, meno volutamente ostico, e nel farlo si accompagna a un’evidente (per quanto non indispensabile) evoluzione tecnica del linguaggio filmico. Per esplorare un terreno mai così vicino all’horror, la macchina da presa diventa una presenza perturbante che infesta la scena.
L’occhio di Lanthimos – coadiuvato dalla fotografia di un Thimios Bakatakis mai così geniale – non è quasi mai immobile, il più delle volte si muove lento, sinuoso e imprevedibile come un serpente: i lentissimi zoom, le carrellate calme ma vibranti di tensione e i crane flemmatici si succedono senza soluzione di continuità e quasi sempre in modo imprevedibile, contribuendo a ipnotizzare lo spettatore insieme alla recitazione fredda, controllata e magnetica che il cineasta impone ai propri interpreti nei primi 50 minuti.
Lanthimos posiziona la macchina da presa sempre su piani sfalsati rispetto a quelli dei protagonisti, inquadrandoli dall’alto o dal basso quasi come fosse una camera di sorveglianza animata di vita propria, e all’inclinazione dell’inquadratura sceglie il più delle volte di abbinare delle lenti grandangolari, allo scopo di sfruttare l’effetto delle linee cadenti per costruire una sensazione di incombenza.
L’inquadratura stessa è composta il più delle volte in modo sbilanciato; accentra il peso visivo a dispetto di ogni regola compositiva e sovente taglia fuori dal frame gli stessi soggetti, quasi fosse disinteressata alle vicende di quegli umani che tanto si affannano. Addirittura la costruzione dei dialoghi offre punti di vista terzi, accentuando l’incomunicabilità che divide i protagonisti, le cui parole sono a tratti sovrastate da i suoni infausti e sovrannaturali di Johnnie Burn o vanno perdendosi nello straordinario montaggio audio.
UN CAPOLAVORO DALLA FORZA DIROMPENTE
Con Il Sacrificio del Cervo Sacro (The Killing of a Sacred Deer) Lanthimos sembra voler accentuare la componente più oscura della propria poetica, interessato più a suscitare una risposta emotiva che tessere un ordito narrativo – proprio come il Tarkovskij del citato Lo Specchio. Rispetto al passato gli estimatori della filmografia del regista ateniese potrebbero soffrire la maggiore semplicità dello script (comunque premiato al 70. Festival di Cannes) e una minore (spietata e dolorosa) ironia, ma è impossibile non rimanere sopraffatti davanti a un’opera ipnotica che però mira costantemente a mettere a disagio lo spettatore, nella quale lo sguardo stesso del regista è una presenza minacciosa. Un’opera che ha il suo perno in una scena dal sapore rituale: un malato ‘girotondo’ con tanto di cappucci bianchi e neri (con un codice cromatico esplicito e archetipico) iscritto all’interno di una trinità senza l’ombra di un dio, pronta però a rigenerarsi quando il carnefice diventerà a suo modo vittima. Una vetta artistica altissima, da far contemplare nelle scuole di cinema. Un capolavoro sul sacrificio, il dolore e la responsabilità, dal grande significato ma che colpisce anche chi non sia interessato a cercare una spiegazione. Uno dei più straordinari film degli ultimi decenni.