La regista britannica Sophie Fiennes (sorella degli attori Ralph e Joseph) firma un docufilm su Grace Jones, attrice, cantante, modella e idolo della pop culture, dopo cinque anni trascorsi a filmare la sua vita pubblica e privata. Al centro della pellicola il viaggio in Giamaica dove la cantante ha le sue radici, per registrare l’album Hurricane, uscito nel 2008 e prodotto dalla stessa Jones.
Grace Jones: Bloodlight and Bami sarà nelle sale italiane per un evento speciale il 30 e 31 gennaio, distribuito da Officine Ubu.
Il titolo riprende due termini giamaicani, “Bloodlight” è la luce rossa che si illumina in sala d’incisione, quando l’artista sta registrando e il “Bami” è il pane a base di farina e tapioca tipico dell’isola caraibica. Emerge dunque già dal principio la volontà della regista di voler mostrare le due facce dell’artista, impegnata nella tournee dal vivo e nella registrazione del nuovo album ma anche legata al suo vissuto in Giamaica e al ritorno in famiglia come donna di successo.
Un viaggio nella vita pubblica e privata di un’icona pop
Trasgressiva, innovativa ed indipendente Grace Jones ha iniziato la sua carriera come modella nei primi anni settanta per poi evolversi come artista a tutto tondo, cantante, attrice, famosa per la collaborazione con numerosi artisti tra cui il francese Jean-Paul Goude, padre di suo figlio Paulo.
Interprete di Zula nel fantasy Conan il Distruttore, bond girl in 007- Bersaglio Mobile e protagonista assoluta nell’ horror movie Vamp, Grace Jones incarna in tutte le sue sfaccettature quella che è la cultura pop degli anni ottanta, eclettica, fuori dagli schemi e provocatoria, estremista proprio come la sua figura androgina, entrata a pieno titolo nell’immaginario collettivo.
L’interessante vita di Grace Jones, il suo passato, presente e futuro come icona di stile non sono narrati nel film di Sophie Fiennes che preferisce concentrarsi sul viaggio in Giamaica e sull’intimità dell’artista, soprattutto nel rapporto con i suoi famigliari e con la religione pentecostale, che le ha causato molti problemi personali e relazionali.
La Jones, cresciuta a Spanish Town da un padre reverendo, si è poi trasferita negli USA con la nonna ed il nonno putativo, un uomo autoritario e violento che ha traumatizzato lei e i suoi fratelli, che nonostante la rigida educazione sono diventati da adulti entrambi reverendi.
La regista ha conosciuto Grace Jones in occasione di un documentario sulla Chiesa di Los Angeles, guidata dal fratello Noel (Hoover Street Revival del 2001) per poi interessarsi all’artista e seguirla nei suoi spostamenti, in Giamaica, in tournee, a New York, Mosca, Parigi.
Sophie Fiennes applica un montaggio sofisticato ad un doppio piano narrativo
La protagonista è raccontata sia come artista che come figlia, madre e manager, utilizzando due piani interpretativi. La camera professionale e il linguaggio volto ad enfatizzare l’estetica per le riprese del live all’Olympia Theatre di Dublino nel 2016, mentre la handycam e una narrazione giornalistica per le riprese più informali girate tra il 2005 e il 2009.
Per quanto la regista utilizzi un punto di vista alternativo al solito documentario che ripercorre il vissuto di un personaggio con interviste e sequenze temporali, la sua chiara volontà di non identificare Bloodlight and Bami né come film né come documentario ne fa emergere un ritratto piuttosto confuso dell’artista, dove il linguaggio utilizzato non interiorizza nessuno stilema, ma soltanto un accostamento di immagini e suoni che dopo la prima mezz’ora iniziano a diventare ridondanti.
L’assenza di riferimenti temporali confonde lo spettatore e non infonde forza alla narrazione
L’esercizio di stile non premia, a mio avviso, i progetti che prevedono l’uscita in sala per pochi giorni e che dovrebbero essere atti a documentare una storia, una personalità e il cui carattere divulgativo è il motivo che induce il pubblico a recarsi in sala, spinto dalla potenza delle immagini oppure dall’interesse per uno specifico argomento.
Purtroppo nel film di Sophie Fiennes non sono presenti riferimenti temporali per cui lo spettatore è completamente disorientato, perso nel tempo e nei luoghi che sono spiegati soltanto nella cartella stampa e che invece dovrebbero essere presenti all’interno dell’arco narrativo.
La storia è affidata completamente alle parole di Grace Jones, ai testi delle sue canzoni, alla personalità dirompente, al suo modo di truccarsi e scegliere i costumi più innovativi, da sempre caratteristica dei suoi show. L’artista si mostra alla camera per quello che è (o per quello che vuole dimostrare di essere) ma il minutaggio eccessivo e la mancanza di una biografia, se non per qualche indicazione o considerazione che la Jones fa autonomamente, non fanno di Grace Jones: Bloodlight and Bami un film completamente riuscito.
Un vero peccato perché Grace Jones incarna un modello di artista che oggi è scomparso, una donna indipendente e intraprendente capace di uscire da una famiglia chiusa ed autoritaria per diventare un’icona di stile. Nella narrazione non c’è spazio per i magnifici costumi e il body painting realizzato per lei da Keith Haring nel 1984, per le copertine di Richard Bernstein, per le fotografie di Andy Warhol e di moltissimi altri artisti che nella sua lunga carriera hanno collaborato con lei.
Una scelta narrativa rispettabile ma non del tutto condivisibile.
Un film che deve tutto alla personalità della protagonista, che non ha certamente bisogno di particolari espedienti narrativi per emergere e parlare al grande pubblico. Semmai c’era la necessità di contestualizzare per far comprendere alle generazioni più giovani quanto l’arte sia multiforme e non convenzionale e come la figura di un’artista come Grace Jones ne sia l’espressione.
Il film sarà distribuito in sala come evento il 30 e 31 gennaio 2018 da Officine UBU in collaborazione con SkyArteHD.