Domenica scorsa è tornata Homeland, una delle serie di spionaggio più apprezzate di sempre. Arrivato al suo settimo anno, il prodotto del canale premium cable Showtime sta giungendo alla sua fase conclusiva (gli showrunner hanno pianificato da tempo di chiudere l’arco narrativo all’ottava stagione). Con il primo episodio del nuovo ciclo, Enemy of the State, lo show creato e prodotto da Alex Gansa e Howard Gordon conferma la volontà di intrecciare le classiche dinamiche da spy story con il political drama cercando di ricalcare, più o meno fedelmente, gli immaginari e le suggestioni che provengono direttamente dall’attualità. Non è un caso che negli ultimi anni Homeland abbia azzeccato una previsione dietro l’altra con una frequenza che ha quasi del clamoroso: nella terza stagione aveva previsto l’accordo sul nucleare tra Stati Uniti ed Iran mentre la quinta raccontava un attacco terroristico dell’ISIS a Berlino, avvenuto poi realmente nel Natale del 2016. Inoltre, quando nel dicembre scorso a San Francisco è stata arrestata una recluta dei Marines che stava progettando un attentato islamico, tutti gli appassionati di Homeland hanno immediatamente pensato al personaggio di Nicholas Brody (la serie esordì sul piccolo schermo nel 2011 raccontando proprio una vicenda simile).
DOVE ERAVAMO RIMASTI?
La cospirazione ai danni della Presidente eletta Elizabeth Keane (Elizabeth Marvel) viene sventata in extremis da Carrie (Claire Danes) e da Quinn (Rupert Friend), con la morte di quest’ultimo. La nuova Commander-in-chief comincia così una rappresaglia senza precedenti che porta all’arresto di militari, politici e agenti governativi, compreso Saul (Mandy Patinkin) che finisce in un carcere federale. La settima stagione comincia proprio da qui: l’ex spia bionda vive con la sorella Maggie (Amy Hargreaves), cura il proprio disturbo bipolare e nel frattempo cerca di organizzare una rete di contatti per contrastare la deriva autoritaria della presidentessa degli Stati Uniti. In particolare, facendosi aiutare dal fidato Max (Maury Sterling), Carrie intende programmare un incontro tra il deputato Sam Paley (Dylan Baker), che indaga sulle malefatte dell’attuale Amministrazione, e un suo vecchio amico, Dante Allen (Morgan Spector), testimone oculare della sistematica violazione dei diritti civili che subiscono le persone fatte arrestare dalla Keane.
LO SGUARDO AD ERDOGAN…
In questa nuova stagione notiamo subito una continuità narrativa con il season finale dello scorso anno: la presidentessa Keane (pienamente in carica) ha totalmente cambiato pelle dato che, fra deliri paranoici e abusi di potere, è indaffarata a togliere di mezzo ogni sospetto cospiratore, non importa se colpevole o innocente. Anzi, i modi con cui la Casa Bianca si libera dei presunti oppositori sono talmente sbrigativi che ricordano molto le azioni compiute da Erdogan dopo il fallito colpo di Stato ai danni del presidente turco nel 2016. Fin troppo facile pensare che gli autori della serie, così attenti alle dinamiche geopolitiche internazionali, abbiano guardato proprio alla Turchia per ricreare lo stesso clima di terrore politico che caratterizza questa première.
…E IL FANTASMA DI TRUMP
La vera novità di questo inizio stagione è proprio il capovolgimento narrativo in cui i lupi diventano agnelli e viceversa, rimescolando le carte in gioco; Carrie è l’unico perno stabile e coerente in un panorama completamente ridisegnato. Dopotutto neanche gli autori di Homeland – un pò come i sondaggisti di tutto il mondo – avevano previsto l’elezione di Donald Trump nel novembre del 2016, scommettendo tutto sulla vittoria della Clinton. Se nella sesta stagione il personaggio femminile della presidentessa eletta era inevitabilmente influenzato dall’attualità politica, nel ciclo di episodi appena iniziato gli sceneggiatori mostrano una pericolosa deriva autoritaria (i riferimenti a Trump sono palesi) che potrebbe distruggere lo Stato di diritto negli USA. È anche per questo motivo che Homeland decide di proseguire con la storyline della Keane, quando invece nel corso degli anni ci ha sorpreso per la sua capacità di resettare la trama cambiando location e personaggi. Questa volta si rimane negli Stati Uniti per raccontare le malefatte di un’amministrazione: lo stesso showrunner Gansa ha dichiarato che “questa volta era difficile provare a raccontare una storia ambientata a Parigi o in Sud America perché nelle nostre vite qualcosa di molto significativo sta accadendo proprio in questo momento“.
I PUNTI DI DEBOLEZZA
Eppure proprio questo ribaltamento rischia di essere anche uno dei punti di debolezza più vistosi: fin dalle prime battute le ossessioni della Keane appaiono troppo forzate e allo stesso modo l’entrata in scena di alcuni personaggi secondari (come quello del capo dello staff della Casa Bianca David Wellington, interpretato da Linus Roache) peccano di prevedibilità nel loro obiettivo di contrastare la presidentessa. Per non parlare del nuovo ruolo di Brett O’Keefe (Jake Weber): il popolare ex imbonitore televisivo della sesta stagione si ritrova adesso perseguitato dalle autorità federali e costretto a trasmettere in clandestinità il suo format anti-Keane, riuscendo finalmente ad apparire come una vera vittima di un governo tirannico. Il pilastro narrativo fermo ed immutabile è ovviamente Carrie: decisa a difendere la democrazia anche contro gli abusi del suo stesso governo, la protagonista, alla stregua di O’Keefe, si ritrova suo malgrado a vestire i panni del nemico di Stato (citando il titolo della première).
Detto questo, Homeland ci ha insegnato negli anni a non giudicare un libro dalla copertina: spesso le stagioni passate hanno tradito le aspettative nel breve periodo per poi crescere progressivamente verso il finale. E in fondo, ricordiamolo, il doppio gioco fra apparenza e sostanza è sempre dietro l’angolo. Dopotutto stiamo pur sempre parlando di una spy story.
Vi terremo aggiornati sulla messa in onda italiana.