Lo scorso anno è stato particolarmente avaro di soddisfazioni per il cinema italiano, e a stupire positivamente sono stati quasi solo artisti più o meno emergenti e piccole produzioni. È proprio per questo che è particolarmente amaro constatare come questo 2018 – che segnerà il ritorno di molti dei più blasonati nomi del cinema del Belpaese – si apra anche con una terribile caduta per una delle più promettenti nuove registe di casa nostra.
Laura Bispuri infatti, dopo essersi distinta alla 65° Berlinale con l’ottimo esordio Vergine Giurata, a tre anni di distanza torna alla kermesse di Kosslick con un lavoro che – pur con il dovuto rispetto a chiunque vi abbia profuso i propri sforzi – ai nostri occhi non può che risultare indegno. Figlia Mia (questo il titolo del film che troviamo nelle nostre sale a partire dal 22 febbraio) ci pare una caporetto senza precedenti, che riesce a trasformare due delle più apprezzate interpreti del nostro cinema in macchiette al servizio di un grottesco dramma di una sciatteria disarmante.
UNA SCENEGGIATURA PIENA DI FORZATURE
La storia – messa in scena in modo a dir poco confuso – è quella non originalissima di due madri, una biologica e una ‘adottiva’, che si contendono una figlia.
In una Sardegna inverosimile – che sembra il Texas, ma nella quale regna una povertà così estrema da far sembrare il secondo dopoguerra un ballo di gala – conosciamo Tina (Valeria Golino) e Angelica (Alba Rohrwacher), due ‘campagnole’ teoricamente diversissime tra loro: materna e indefessa lavoratrice la prima; alcolista, di facili costumi e sbandata la seconda.
Valeria è spostata con un pastore sardo (interpretato da un vero pastore sardo), che nella vita reale non avrebbe potuto pensare di condividere il letto con la Golino nemmeno nella più sfrenata delle proprie fantasie, e i due hanno una figlia di dieci anni, Vittoria (la sarda Sara Casu), simpatica come un agente del fisco e dotata di una folta chioma rossa ereditata non si sa bene da chi.
La sceneggiatura decide che sia normale che la ragazzina si aggiri continuamente da sola per le secche campagne sarde senza che l’amorevole madre se ne ponga il probema, così come decide arbitrariamente che la bimba provi un’ingiustificata empatia verso il personaggio della Rohrwacher, la disperata caricatura di una poco di buono.
Senza alcuna sorpresa il film rivelerà quel che tutti sanno già dalla sinossi ufficiale, e cioè che la vera madre di Vittoria è Angelica, che dopo aver partorito la piccola l’ha venduta a Tina. Quel che però sorprende è che la storia quasi non conoscerà un’evoluzione, limitandosi a un paio di prevedibili scenette melodrammatiche e a un evitabilissimo finale a tarallucci e vino.
POVERTÀ LIVELLO: MARIOTTIDE
La sceneggiatura, scritta a quattro mani dalla Bispuri con Francesca Manieri, basterebbe da sola ad affossare in partenza il film, confuse come sono le poche idee che la percorrono: quasi la parodia dello stereotipo del film d’autore, che in realtà di autoriale ha solo la pretenziosità.
Come già detto, l’indigenza raccontata quasi pornograficamente nel film è tanto forzata da risultare ridicola. Potrebbero sembrare già eccessive scelte come quelle di farla giacere la Rohrwacher sulla nuda terra, farle accarezzare affettuosamente i maiali, farle raccogliere avidamente le monetine lanciatele in segno di sprezzo, farla praticamente prostituire nel tipico bar serale texano frequentato da pastori sardi che fanno motocross, o farle preparare la colazione alla figlia con una medicina effervescente all’arancia sciolta nel latte caldo («non ho il cioccolato ma questa è buona, sa di arancia»), ma no: i limiti del ridicolo vanno superati con tutti gli sforzi, e pertanto il copione ci regala perle come «i biscotti al burro che vendono nei supermercati dei ricchi». Sì, i famosissimi «supermercati dei ricchi», notoriamente il sogno proibito per una selvaggia che non può permettersi dei biscotti e che nelle giornate di festa probabilmente mangia la polvere nella quale vive.
UN CASTING INCOMPRENSIBILE
La scelta di raccontare questo disagio decisamente più vicino al Mariottide di Marcello Macchia che al neorealismo (che ci regala anche momenti ai limiti del trash come Tina che costringe la bimba a guardare la madre biologica che pratica una fellatio a un amante, o Angelica che prova a far entrare la piccola in una pericolosissima e minuscola buca nel terreno perché «servono soldi, lì dicono che ci sia un tesoro») non definisce il film tanto quanto quello che è probabilmente il peggior casting mai concepito in una pellicola italiana recente.
L’irragionevole scelta di arruolare per questa saga dei bifolchi due attrici tra le più affascinanti del nostro cinema, che per modi e parlato rappresentano la perfetta incarnazione dell’Italia più borghese, è infatti l’errore che più di ogni altro trasforma un’idea forse anche coraggiosa in un progetto fallimentare.
La Golino e la Rohrwacher sono donne di grande intelligenza, e attrici che spesso si sono dimostrare in grado di arricchire non poco i film ai quali partecipano. Due interpreti sofisticate e non flessibilissime, che forse nessuno avrebbe pensato anche solo di provinare per le parti infine assegnate loro. Il punto è che, per motivi non del tutto comprensibili (tra questi forse l’ancora inesperta direzione della Bispuri), Golino e Rohrwacher ritengono che lo spettatore possa trovare credibile che due donne di un’estrazione sociale bassissima, appartenenti a una pseudo-Sardegna quasi paleolitica, parlino con la dizione ben studiata e quasi teatrale, tipica dei loro ruoli più convenzionali, solo occasionalmente abbandonandosi a un poco credibile «sa basca» (la Golino) o a un timida cadenza con uno strano sapore di Est-Europa (la Rohrwacher).
IL SECONDO FILM È SEMPRE DIFFICILE
Questo mix di uno svolgimento narrativo forzato, pieno di buchi e mai veramente appassionante; di un contesto tanto carico da risultare caricaturale, e di interpreti completamente fuori parte affossa completamente ogni velleità artistica della Bispuri, che può sperare solo nei consensi della stampa straniera a Berlino, che non coglie le sfumature linguistiche dell’italiano, non conosce i luoghi della storia e magari crede davvero che l’Italia sia ancora ferma al degrado dell’immediato dopoguerra.
Il secondo film è un passaggio difficile che ha messo a dura prova molti validi autori, pertanto non possiamo che augurare a Laura Bispuri di rimboccarsi da subito le maniche e iniziare a pensare come valorizzare i punti di forza che già aveva dimostrato di avere col suo debutto. Speriamo con tutto il cuore che Figlia Mia rimarrà un giorno un capitolo infelice in una carriera di altissimo profilo, anche perché il cinema italiano ha un grande bisogno di più donne dietro la macchina da presa. Quello di Figlia Mia, però, è un esperimento miserabilmente fallito; un film che per la sua pochezza di idee, per la sua natura ruffiana e per l’evidente mancanza di una visione coerente non meriterebbe di rappresentare il nostro cinema alla Berlinale – nonostante le scelte di Kosslick lascino ormai perplessi da anni.