Se, con estrema maestria, Kim Ki-duk era già riuscito una volta nell’impresa di portare sullo schermo una ringkomposition sofisticata e di deciso impatto morale ed estetico con il suo Primavera, estate, autunno, inverno… e ancora primavera (Bom yeoreum gaeul gyeoul geurigo bom, 2003), altrettanto non si può dire dell’ultima pellicola presentata fuori concorso alla 68esima edizione del Festival Internazionale del Cinema di Berlino. Con Human, Space, Time and Human (Inkan, gongkan, sikan grigo inkan), il regista sud-coreano non solo tenta di rappresentare, ancora una volta, le diverse fasi della vita umana ma si imbarca anche in un racconto escatologico pretenzioso e di dubbio gusto.
Una vecchia nave da guerra diventa il palcoscenico per il microcosmo narrativo creato dal regista nel quale si muovono svariati personaggi. Di nessuno di questi sapremo mai il nome, né verremo mai messi a parte del loro passato, tutto ciò che sappiamo lo possiamo inferire dal racconto. Così, il film prende il via in modo piuttosto tradizionale con una carrellata che presenti quei personaggi che avranno maggiore rilevanza nella storia. A bordo, abbiamo quindi una coppia giapponese da poco convolata a nozze (Fujii Mina e Odagiri Joe), un eminente politico coreano accompagnato dal figlio (Lee Sung-jae e Jang Keun-suk), una banda di criminali di bassa lega (Ryoo Seung-bum nel ruolo del boss), un trio di ragazze che si prostituiscono per racimolare qualche soldo e il capitano della nave (Sung Ki-youn) con i suoi più stretti collaboratori. A questi, si andrà ad aggiungere un misterioso uomo anziano (Ahn Sung-ki) il cui unico ruolo sembra quello di muto osservatore di tutto ciò che andrà a consumarsi sulla nave.
Quando la sceneggiatura viene sacrificata sull’altare della violenza
Confezionando un prodotto che supera di poco le due ore, Kim Ki-duk non perde tempo a farci capire in che direzione vuole far andare il suo film. Se già dopo pochi minuti, vediamo come questo microcosmo sia governato dalle medesime leggi che regolano il mondo in cui viviamo, con i più potenti che godono di svariati trattamenti di favore spalleggiati da un gruppo di criminali che non perde un attimo a minacciare coloro che osano protestare contro l’ordine costituito, sarà solo questione di tempo prima che si cada inesorabilmente in una spirale di violenza ingiustificata e gratuita. A stupri ripetuti seguirà un omicidio la cui punizione sembra provenire direttamente dal cielo: improvvisamente, la nave non viaggia più sull’acqua ma si trova adesso a solcare i cieli dando quindi il via al capitolo denominato Space. Da qui in avanti: il caos. Gli interni già claustrofobici della nave assumono adesso un’importanza strategica del tutto nuova, con le scorte di cibo che vengono sequestrate e razionate e le persone a bordo che naturalmente sono divise in gruppi: i ricchi e potenti protetti dai gangster, il capitano e il suo equipaggio che tentano di mantenere l’ordine e il resto dei passeggeri adesso tenuti in ostaggio.
Non passerà molto prima che questo equilibrio precario si rompa definitivamente e il film si perda in un prevedibile e a sprazzi patetico susseguirsi di carneficine, atti di cannibalismo e esasperanti tentativi di sopravvivenza da parte dei più gretti individui che popolano la nave. Più odiosa dell’inutile e morbosamente voyeuristica serie di stupri con cui Kim Ki-duk decide di vessare il suo pubblico, è la riprovevole virata paternalistica con cui il regista tenta quasi di giustificare la bassezza dell’uomo (da intendersi qui come maschio) a mettere i brividi. Non solo, infatti, la donna viene qua continuamente ridotta a mero corpo senza volontà, a giocattolo sessuale nelle mani di vari uomini, ma viene anche privata della libertà di operare una scelta in completa autonomia, che sia quella di uccidersi o di uccidere quel bambino che porta in grembo come risultato di una violenza. Anzi, sarà la figura quasi divina dell’anziano che ha visto tutto ma non agisce né condanna, a fermare la mano della donna e a convincerla che tutto quello che le è successo è accaduto per un bene superiore e che la gravidanza debba quindi essere portata avanti per rispondere a un non ben specificato volere celeste. Così il seme del peccato si trasformerà in seme di redenzione e lo spettatore sentirà improvvisamente il bisogno di controllare sul proprio smartphone di essere ancora nel 2018 e non, per qualche strano motivo, nel 1208.
Un racconto prevedibile e vuoto
Che Kim Ki-duk, nel corso della sua carriera, non sia nuovo ad accuse di misoginia o al dipingere quadri eccessivamente violenti è di certo fuori di dubbio, ma sembrava che, fino a oggi, fosse possibile scusarlo in luce del valore estetico delle sue opere, di una certa potenza narrativa che informava i suoi film, e di un apparato morale che sembrava in qualche modo sorreggere la sua produzione. Con Human, Space, Time and Human, invece, tutto questo si perde e ciò che rimane è la vuota rappresentazione della bestialità umana, in un racconto che dimentica di stupire o di suscitare il benché minimo interesse dal punto di vista tecnico, a favore di quella fastidiosa presunzione di credere che tutto possa essergli concesso se, con il suo scioglimento, la trasformazione in una parabola spiccatamente spirituale risulta quantomeno completa.
L’unica fase della vita umana che, con questo film, Kim Ki-duk è riuscito perfettamente a cogliere è quella di un regista che, dopo film riuscitissimi e premi vinti nei più prestigiosi festival internazionali, ha deciso di giocare a carte scoperte, mettendo in scena un film di una pochezza disarmante dove la donna è sfruttata, dileggiata, privata di libero arbitrio ma infine assurta al ruolo di un’Eva moderna grazie all’intercessione di un buon uomo misericordioso. Un delirio di onnipotenza allarmante in un pacchetto di 122 minuti.