C’erano almeno due buone ragioni che facevano ben sperare per Mute, il nuovo film di Duncan Jones: la prima era l’esordio del regista britannico con Moon (2009), che aveva meravigliato pubblico e critica per un’elegantissima capacità di ridisegnare l’immaginario sci-fi, utilizzando una struttura minimalista per far respirare temi universali; la seconda era che questo nuovo lavoro (targato Netflix) era stato annunciato, oltre che come un “sequel spirituale” di quel Moon, anche come un implicito omaggio a David Bowie, di cui Duncan Jones è il figlio primogenito. Ma a fine visione entrambe queste promettenti premesse ne escono mozzate, perdute, quasi tradite. Forse è troppo parlare di “disastro”, come ha fatto il Guardian: ma se non è un disastro ci aggiriamo nei suoi dintorni e in qualche punto ci finiamo pure dentro.
Berlino, 2052
Eppure nei primissimi minuti Mute sembra introdurci ad un mondo abbastanza curioso da apparire interessante: in una Berlino futuristica (siamo nel 2052), Leo (Alexander Skarsgård) è un barman Amish, rimasto muto per un incidente subito da piccolo e che per rispetto della propria confessione rifiuta di ogni tipo di tecnologia, compreso il farsi operare alle corde vocali per tornare a parlare. Succede che la fidanzata di Leo, la cameriera Naadirah (Seyneb Saleh), scompare dalla circolazione e il barman inizia a mettersi sulle sue tracce, incrociando parallelamente la strada di due ex-militari americani: Cactus Bill (Paul Rudd), redneck fino al midollo che cerca disperatamente un passaporto falso per tornarsene negli Stati Uniti, e Duck Teddington (Justin Theroux), medico con un’ossessione molto particolare per i bambini (si, proprio quella).
I collegamenti con Moon
Fin qui tutto bene. L’universo costruito da Mute è il tipico futuro dei film di Duncan Jones. È un futuro abbastanza bizzarro da essere difficile da immaginare. C’è la bella idea dell’Amish che diserta la tecnologia, ci sono delle premesse narrative volutamente oscure (i soldati disertori USA sono trattati come una sorta di clandestini) e il personaggio principale, qui senza voce, gioca per riduzione, ripercorrendo quel minimalismo caratteristico dei soggetti del regista britannico. Lentamente scopriamo che nella pellicola ci sono anche dei link ai precedenti film del regista, fra tutti lo stesso Moon (che viene richiamato esplicitamente da una cronaca televisiva), facendone una sintesi autoriale che sa collegare i fili intimi e cosmici del cinema di Duncan Jones, facendoci magari sbirciare, così come annunciato, fin dentro il suo rapporto con la figura paterna, il “duca bianco” David Bowie.
La mancanza di intreccio
Il problema è che lo sviluppo di questo universo narrativo cade rovinosamente pezzo dopo pezzo nel tentativo di dargli un filo conduttore che riesca ad attraversarlo in modo solido e coerente: dopo i primi venti minuti ogni passo che facciamo in Mute diventa un passo falso in una direzione non ben precisata, un infilarsi in un vicolo cieco che non porta da nessuna parte. Come se non bastasse, a un certo punto, lo script si sdoppia relegando il protagonista in seconda battuta dietro la coppia Cactus & Duck e dividendo la storia principale in due sotto-storie intrecciate fra loro. Sfumare un film in due episodi filmici era sicuramente nelle intenzioni di Duncan Jones (e in fin dei conti nelle intenzioni del suo cinema), ma le interruzioni e le ricongiunzioni fra le due narrazioni sono fin da subito brusche, improvvise, incomprensibili. Privi di una contaminazione e di un intreccio necessari per condurci ad un finale compatto e risolutore, come difatti non lo è.
Un Blade Runner al ribasso
Si può salvare dunque pochissimo di Mute: c’è la colonna sonora azzeccatissima di Clint Mansell (compositore dei film di Aronofsky e che ha musicato anche il bellissimo San Junipero di Black Mirror), c’è la bravura glaciale di Alexander Skarsgård nell’interpretare un personaggio tutt’altro che facile e c’è qualche spunto di ferocia volutamente disturbante e dissonante, come la pedofilia di Duck e il conseguente rapporto con l’amico veterano Cactus. Tutto il resto, ci spiace dirlo, non funziona: la stessa ambientazione sci-fi pare una rilettura al ribasso del Blade Runner di Ridley Scott (le venature noir sono decisamente posticce, quasi fuori luogo) e anche il tentativo di mixare fantascienza e realismo è un vano inseguimento dei migliori Blomkamp e Villeneuve che però rimangono distanti anni luce.
Quando poi in chiusura si materializza un cartello che dedica la pellicola ai genitori defunti del regista, Mary Angela Barnett e David Robert Jones, vero nome di David Bowie, capiamo che anche il tema della genitorialità e dell’essere genitori ci è sfuggito o forse, per buona parte del film, è rimasto inafferrabile, come un fantasma che non sa manifestarsi mai. Questo, più di tutti, è forse l’aspetto più deludente di Mute: l’incapacità di Duncan Jones di universalizzare la propria intimità, di condividerla con noi, di parlarci davvero.